Due ore e mezza che si concentrano tutte sullo stesso concetto: l'insuperabilità dei pregiudizi e delle barriere culturali.
Se Bergman si confrontava deluso con il mutismo divino a un livello testuale e intellettuale profondi, se Dreyer accoglieva Kierkegaard nella sua crisi di fede con Ordet, lo stesso pare provarci il regista islandese Hlynur Pálmason con il suo terzo film, che prende anche spunto dalle scenografie primitive di Lezioni di Piano.
Le sette lastre fotografiche rinvenute che ritraggono la costa sud orientale dell'Islanda per la prima volta nel XIX secolo per mano di un missionario luterano danese sono la matrice di una storia semplice, quasi parabolica, di un prete che attraversa mezza isola con l'obiettivo di documentare la natura del luogo e i suoi abitanti prima di far erigere la nuova parrocchia.
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Due ore e mezza che si concentrano tutte sullo stesso concetto: l'insuperabilità dei pregiudizi e delle barriere culturali.
Se Bergman si confrontava deluso con il mutismo divino a un livello testuale e intellettuale profondi, se Dreyer accoglieva Kierkegaard nella sua crisi di fede con Ordet, lo stesso pare provarci il regista islandese Hlynur Pálmason con il suo terzo film, che prende anche spunto dalle scenografie primitive di Lezioni di Piano.
Le sette lastre fotografiche rinvenute che ritraggono la costa sud orientale dell'Islanda per la prima volta nel XIX secolo per mano di un missionario luterano danese sono la matrice di una storia semplice, quasi parabolica, di un prete che attraversa mezza isola con l'obiettivo di documentare la natura del luogo e i suoi abitanti prima di far erigere la nuova parrocchia. Questo a costo della vita del suo interprete e a rischio della sua stessa. La fascinazione "turistica" lascia presto il posto alla frustrazione dell'inadeguatezza dello smilzo prete rispetto all'inospitalità della natura, che per quanto bella e seducente, non si lascia abitare facilmente. E sono il rapporto dialettico e il contrasto che ne sfociano a far perdere definitivamente nel pastore la coscienza morale e spirituale di cui dovrebbe investirsi. Tanto da dimenticare il principio fondamentale della sua fede, ossia la riconoscenza, a partire da quella che dovrebbe provare come minimo verso la guida locale che non solo gli salva la vita e tollera la sua arroganza, ma che gli costruisce pure il santuario. E l'ingratitudine, il vero cuore del film, anticipata nel racconto di apertura, è la chiave di una catena eliminatoria, in cui sono gli uomini a giustiziarsi a vicenda e dove Dio non ha voce in capitolo, guarda caso proprio negli anni in cui, proprio in Danimarca, qualcuno osava profetizzarne la dipartita.
Va sicuramente elogiata l'impostazione estetica costruita su lunghi piani sequenza, panoramiche asettiche e onnicomprensive, l'alternanza di ellissi e prolissità oltre il sopportabile, in ossequio a una Natura che si fa personaggio attante e che stringe gli abitanti, grazie anche a un formato di vecchio tipo come i 4:3, ma l'eccessiva durata tende a smarrire il focus centrale, ossia la regressione di un uomo di culto e civilizzato in contrasto con un mondo ai suoi antipodi e a lui ostile, e a cui non riesce, per inettitudine o orgoglio, ad accedervi ma solo a nutrirsene parassitariamente, a favore di un compiacimento di fondo, per cui l'autore sta attento sia a riflettere sull'umanità sia ad elevarsi, senza sintesi e senza umiltà, all'altezza dei suoi maestri. Con una rigidità di fondo a cui fa in parte da specchio il prete, fotografo ottuso al punto da non essere in grado di cogliere l'originalità delle pose suggerite dai suoi stessi soggetti.
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