matteo
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venerdì 24 luglio 2020
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entierro: acqua, terra, aria e fuoco.
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Quando mi capita di guardare documentari sull’arte – in generale o su specifici artisti – non di rado incontro delle difficoltà. Spesso si rivelano banali “cataloghi in movimento”, brevi film intervallati da didascaliche interviste a critici che interrompono e appesantiscono il racconto – e poco dicono della reale natura dell’artista in questione – o, nei casi peggiori, “arricchiti” da noiose e improbabili ricostruzioni storiche.
In effetti, definire semplicemente “documentario” il lungometraggio di Maura Morales Bergmann sulla vita e le opere di Carmengloria Morales, così denso di immagini magnificamente “fotografate” del territorio cileno, della casa della pittrice – prima e dopo l’incendio che l’ha devastata – e delle sue opere è alquanto riduttivo.
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Quando mi capita di guardare documentari sull’arte – in generale o su specifici artisti – non di rado incontro delle difficoltà. Spesso si rivelano banali “cataloghi in movimento”, brevi film intervallati da didascaliche interviste a critici che interrompono e appesantiscono il racconto – e poco dicono della reale natura dell’artista in questione – o, nei casi peggiori, “arricchiti” da noiose e improbabili ricostruzioni storiche.
In effetti, definire semplicemente “documentario” il lungometraggio di Maura Morales Bergmann sulla vita e le opere di Carmengloria Morales, così denso di immagini magnificamente “fotografate” del territorio cileno, della casa della pittrice – prima e dopo l’incendio che l’ha devastata – e delle sue opere è alquanto riduttivo. È a tutti gli effetti un vero e proprio film biografico (ora li chiamano biopic) – e in parte autobiografico. Si intuisce immediatamente la trama di ciò che avrebbe dovuto essere, ovvero un dialogo tra le arti, musica e pittura, recitato dal compositore Jorge Arriagada e Carmengloria stessa e, in un certo qual modo, lo è. Da quanto sono riuscito a capire, però, solo alcune scene di questo proficuo scambio si sono salvate dalle fiamme e la regista, sul filo conduttore di queste brevi ma intense conversazioni, tesse un patchwork di parole, immagini e musiche capace sì di intrattenere lo spettatore, ma soprattutto in grado di raccontare la storia – e la filosofia di vita – di una donna dallo straordinario talento, che ha dedicato la propria esistenza all’arte con un coraggio davvero ammirevole.
Mi ha lasciato perplesso, inizialmente, l’intermittenza tra i diversi formati scelti dalla regista, che con grande disinvoltura passa dai 16:9 ai 4:3 dei filmati di repertorio, fino a ridurre l’immagine – per pochi secondi – a un piccolo rettangolo al centro dello schermo nero. Quando però l’inquadratura si apre definitivamente, la “falsa indecisione” si dissipa, liberando dai gangli delle cornici il racconto, che scorre finalmente fluido e veloce fino al termine. L’alternanza dei tagli e delle dimensioni, dunque, almeno a mio modesto parere, è gestita benissimo e dona al documentario una grande forza narrativa.
Fondamentale appare il rapporto tra gli elementi della natura – acqua, terra, aria e, purtroppo, fuoco – e le tele, all’interno delle quali talvolta ci ritroviamo immersi, per poi riaffiorare in superficie e tornare a respirare negli sconfinati e variegati spazi cileni, nei confronti dei quali, è palese l’amore nutrito sia dall’artista che dalla regista. Illuminante, a questo riguardo, è una breve sequenza simmetrica, in cui un deserto scuro e un cielo di un azzurro iper-realistico dividono in orizzontale lo schermo. La camera lentamente ruota e l’immagine sfuma in direzione di un dittico verticale, composto dai medesimi colori. La scena si ripete pochi secondi dopo, partendo stavolta da un altro dittico, per fermarsi su un nuovo, meraviglioso panorama naturale. Un abile gioco d’immagini e specchi, attraverso il quale però Maura riesce a farci comprendere quanto il territorio natìo – lontano fisicamente dalla vita di Carmengloria, passata quasi interamente tra Roma, Milano, Londra e New York – sia importante e profondamente immagazzinato nella memoria dell’artista, dalla quale emerge, trasfigurato, nelle tele rappresentate nel film.
A proposito della “memoria”, è molto interessante la lunga sequenza del “diario pittorico”, un piccolo quaderno che l’artista mostra all’intervistatrice su cui appaiono infinite macchie di colore: studi che mettono in relazione il tempo, lo spazio – il diario è catalogato per date e luoghi di composizione – e la tecnica. Molto spesso, i documentari ci presentano gli artisti come uomini e donne “investiti” da un genio innato e istintivo, senza sottolineare quanto studio e applicazione ci sia dietro ogni opera, per quanto astratta possa essere. Quelle “confessioni pittoriche”, che a prima vista possono apparire come semplici schizzi colorati, sono l’esatta rappresentazione di un talento – questo sì, probabilmente innato e piovuto come sacra pioggia sul terreno arido dell’essere umano – coltivato, cresciuto e curato per tutta la vita e messo dunque nelle condizioni di poter fiorire e dare frutti prelibati.
Si nota, durante le brevi interviste che si susseguono lungo il documentario, la totale assenza di didascalie. Questa scelta, che per un verso rischia di confondere e spiazzare lo spettatore non sempre capace di comprendere chi sia il personaggio inquadrato – e già in parte “distratto” dai sottotitoli, necessari per i dialoghi in spagnolo, ma sapientemente posizionati nella fascia nera bassa dello schermo –, evita altresì di “sporcare” ulteriormente le immagini e porta il racconto su un piano vagamente onirico, che ben si amalgama con i misteriosi significati nascosti nelle opere della Morales.
Ciò che davvero rimane al termine della visione del film, è la forza di entrambe le donne protagoniste, poste ai lati opposti della telecamera. La pittrice per prima, eccezionalmente sicura e convinta delle proprie capacità, tanto da ammettere di aver apertamente sfidato uno dei suoi manifesti maestri, a seguito della deludente – a suo parere – visita della “Rothko Chapel” a Houston, dipingendo, su commissione, la cappella del carcere di Viterbo. Il giudizio su chi esca vincitore da questa battaglia è ovviamente lasciato allo spettatore, ma, ancora una volta, il coraggio di Carmengloria Morales si palesa dirompente nelle sue provocatorie parole così come nei dipinti sopravvissuti – letteralmente – all’incendio e in quelli realizzati subito dopo il tragico evento, esposti nella mostra Done by fire a Milano, nel 2017. A Maura va il mio ringraziamento per avermi fatto scoprire un’artista che non conoscevo e la mia ammirazione per la tenacia dimostrata nel saper continuare e trasformare il suo progetto quasi interamente distrutto dal fuoco e risorto, grazie alla sua caparbietà e alla sua energia, dalle ceneri.
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vanessa zarastro
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martedì 14 luglio 2020
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un’artista materica
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Così affermava Carmengloria Morales nel 1974: «I valori dimensionali sono implicitamente connessi alla mia pittura ma al di fuori di ogni programma illusionistico o prossemico (mi riferisco a certi ordini di rapporti che possono intercorrere tra quadro e spettatore come quelli di tipo "avvolgente", con la vocazione all'environment, e con perdita della visione complessiva). Mi interessa invece insistere sulle focalità medie, in modo da poter sempre controllare i confini percettivi e percepibili.
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Così affermava Carmengloria Morales nel 1974: «I valori dimensionali sono implicitamente connessi alla mia pittura ma al di fuori di ogni programma illusionistico o prossemico (mi riferisco a certi ordini di rapporti che possono intercorrere tra quadro e spettatore come quelli di tipo "avvolgente", con la vocazione all'environment, e con perdita della visione complessiva). Mi interessa invece insistere sulle focalità medie, in modo da poter sempre controllare i confini percettivi e percepibili. Questo atteggiamento di riflessione sulle potenzialità implicite del mio linguaggio mi muove una necessità di analisi delle strutture (nel senso più oggettivo) interne della pittura e della loro articolarsi secondo relazioni pure, fondamentali.»
Nata nel 1942 a Santiago del Cile e trasferitasi in Italia dieci anni dopo, Carmengloria Morales ha iniziato a dipingere da giovane subito completati gli studi di liceo artistico. Ha vissuto a Roma negli anni Sessanta, famosi per il grande fermento culturale. La sera attorno a Piazza del Popolo poteva incontrare registi, pittori, letterati come Federico Fellini, Achille Perilli, Gastone Novelli, Umberto Eco e Pierpaolo Pasolini. La sua prima personale risale al 1965, sempre a Roma. Parteciperà nella decade successiva alle principali rassegne sulla “Pittura analitica” e sulla “Nuova Pittura”. E ancora dopo esporrà negli Stati Uniti nelle mostre di Radical painting e Fundamental painting.
Per una decina di anni Carmengloria Morales ha dipinto il “buio” con varie tonalità di nero dovute a materiali diversi, oppure opere monocromatiche, in rosso o in blu. Poi scoprirà il ruolo del colore come forza e inizierà a costruirseli da sola. È attratta dal lavoro di Lucio Fontana, ma è anche influenzata dai cosiddetti espressionisti astratti americani quali Mark Rothko, Barnett Newman e Ad Reinhardt: colori e dimensioni da indirizzare su una ricerca formale su problemi di spazio, colore e forma.
La sua non vuole essere una pittura di impressione e non appartiene allo sguardo, intende essere invece una pittura che rappresenta concetti e/o sensazioni: la consapevolezza, la distanza, l’aggressività, il buio, il silenzio. Elabora dittici o trittici dove uno dei pannelli è il “vuoto” il cui ruolo è quello di esaltare l’altro e, per contrasto, definirlo. «La distanza che mi appartiene culturalmente è quella di sapere che stai guardando un quadro: nella parte dipinta c’è tutto quello che puoi fare come artista che sta agendo, poi c’è la tela vuota che è il prima, il dopo, l’immanenza. La coscienza nel quadro è quella che ti respinge e ti dice: “attento che stai guardando un quadro!”»
Dalla metà degli anni Ottanta ha dato inizio alla serie dei Tondi e ai Progetti di pale, opere nelle quali sono sempre più evidenti l’uso di un acceso cromatismo e l’interesse per il valore materico della pittura.
Nella cappella del carcere di Viterbo sono inserite tre sue opere che lei ironicamente considera una risposta “cattolica, romana e barocca” alla cappella di Rothko, in Texas, dove si trovano 14 dipinti neri dell’artista.
Il peso della memoria è forte in Carmengloria così come sembra esserlo per tutti gli abitanti del continente americano. Lì la natura sovrasta, le dimensioni sono dilatate e probabilmente il ricordo del paesaggio cileno è il suo ispiratore di matericità.
La regista Maura Morales Bergman, nipote dell’artista, nel documentario ha voluto ricordare il viaggio di Carmengloria bambina con la madre, che fecero in nave di rientro dal Brasile, quando seppero che il padre stava morendo. È così che l’immensità dell’oceano è rimasta impressa nella sua memoria.
“Entierro” è un elegante e intenso documentario che nasce dalle ceneri di un altro lungometraggio: “Destierro”, sempre della stessa regista, andato bruciato in un incendio domestico dopo due anni di riprese. Strutturato come un dialogo tra Jorge Arriagada, un musicista cileno contemporaneo, e Carmengloria, si conclude con la mostra a Milano del 2017 “Done by fire” che ha messo insieme opere, o parti di esse, miracolosamente sopravvissute all’incendio.
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