Il regista sfida il dominio dei blockbuster con un film dal forte messaggio socio-politico: 'Non ci devono essere barriere tra esseri umani'. Da giovedì 18 aprile al cinema.
di Claudia Catalli
Fa sorridere, riflettere e commuovere l'avventura rocambolesca che racconta Marios Piperides in Torna a casa, Jimi!, un film che ha trionfato al Tribeca Film Festival e sta per arrivare nelle nostre sale. Al centro della storia c'è una legge: nessun animale può essere trasferito dalla parte greca di Cipro a quella turca, anche se si tratta della stessa città (Nicosia, politicamente spaccata in due). Da questo spunto nasce una deliziosa commedia sull'importanza di aprirsi all'altro e sull'assurdità della chiusura entro i propri confini, che il regista stesso racconta a MYmovies. Non senza prima confidare: "Amo molto il cinema italiano: Dogman di Matteo Garrone mi ha sinceramente stregato".
"Torna a casa, Jimi! è una bella opera prima. Fresca, stravagante e matura, che fa amaramente riflettere sul significato dei confini".
Partiamo dal cane Jimi: com'è andata con il casting?
È stata durissima. Me ne serviva uno che fosse ovviamente addestrato e che avesse l'aspetto giusto. Abbiamo lavorato a lungo con un'agenzia di casting per animali olandese, ci hanno mandato diverse fotografie e stavamo per scegliere un altro cane. Poi abbiamo visto la cagnolina Pepper e tutto è cambiato.
Colpo di scena: Jimi è una femmina, quindi.
Sì, è il segreto del film, potremmo quasi farne un sequel (scherza, ndr). Appena l'abbiamo vista sono scomparsi i dubbi: era il cane che cercavamo.
Torna a casa, Jimi! è una parabola sulla ricchezza delle differenze, culturali, sociali e politiche, una storia di amicizia, ma soprattutto una commedia: perché ha scelto questo registro per raccontare l'avventura di Jimi e del suo padrone?
Non era facile trovare il giusto equilibrio tra dramma, commedia, love story, avventura. In più dovevamo trovare un modo per non essere didascalici, dare troppe informazioni tutte insieme, è stato un grosso lavoro di scrittura anche per dipanare i nodi politici della situazione che ci tenevo fosse chiara anche a chi non ne ha mai sentito parlare. Il cinema deve saper parlare a un pubblico anche ignaro, a volte.
Il cinema è un mezzo per porre domande, sostiene Ken Loach. È d'accordo?
Moltissimo. È un bel mezzo per spingersi e spingere oltre i confini: la sfida del cinema d'autore rispetto al dominio del mainstream oggi è portare il pubblico a vedere le cose da un altro punto di vista. Perché lo spettatore vuole essere sì intrattenuto, ma vuole anche imparare. Magari uscire dal cinema con un'altra visione delle cose. A me è capitato scrivendo questa storia: decenni fa la pensavo diversamente anche sui temi che affrontiamo nel film.
Avrà parlato molto con il suo cast del tema più sociopolitico del film. Si è mai acceso un dibattito?
Il filo rosso che univa e unisce tutte le nostre idee è l'apertura: che tu sia greco, o turco, non ci devono essere barriere tra esseri umani. Il dialogo, l'apertura ripeto, per me sono sempre la chiave. Eravamo tutti d'accordo nel voler raccontare questo, che poi è il messaggio di un film che vuole anche essere un buddy movie, un bel film su delle persone totalmente diverse che diventano alla fine un'improbabile squadra di amici. Ci credo molto, penso sia questo che funzioni di più nel mio film.