laurence316
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lunedì 15 aprile 2019
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l'infanzia rubata nel grande caos dell'esistenza
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Assurdamente criticato da una parte della miope critica italica (che ha voluto ad ogni costo vedere nel film inesistenti ricatti emotivi, spettacolarizzazioni, malcelate disonestà intellettuali, un deplorevole sfruttamento dell’infanzia [usata, a quanto pare, come “grimaldello emotivo”] e infiniti altri criminosi sotterfugi e doppi fini [a quanto pare, se ci si impegna a fondo, si può arrivare a convincersi fermamente della più inesistente delle presenze]), Cafarnao si afferma invece, al contrario, come uno dei più toccanti, commoventi ed insieme duri e amari film della stagione.
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Assurdamente criticato da una parte della miope critica italica (che ha voluto ad ogni costo vedere nel film inesistenti ricatti emotivi, spettacolarizzazioni, malcelate disonestà intellettuali, un deplorevole sfruttamento dell’infanzia [usata, a quanto pare, come “grimaldello emotivo”] e infiniti altri criminosi sotterfugi e doppi fini [a quanto pare, se ci si impegna a fondo, si può arrivare a convincersi fermamente della più inesistente delle presenze]), Cafarnao si afferma invece, al contrario, come uno dei più toccanti, commoventi ed insieme duri e amari film della stagione.
Un film che quella stessa critica non avrebbe mai osato criticare se fosse stato prodotto negli anni ‘50, recasse un’impronta maggiormente nostrana e passasse sotto l’etichetta di neorealismo. Sì, perché il 3° film della regista libanese non può che ricordare quella straordinaria stagione del nostro cinema. Non si tratta certo di un capolavoro di paragonabile statura, ma riporta alla memoria, in qualche modo, Ladri di biciclette, nel personaggio del piccolo Zain, meno impotente del piccolo protagonista del grande film del ‘48, ma altrettanto continuamente atterrito e abbattuto da un mondo di adulti indifferenti e approfittatori (e nessuno, non v’è dubbio, oserebbe parlare di “disonesto ricatto emotivo” nel caso del film di De Sica e del pianto finale del piccolo Bruno).
Ovviamente, in questo Cafarnao ci si spinge oltre: Zain, nella volutamente provocatoria scena iniziale, intende portare alla sbarra i propri genitori, “colpevoli” di averlo fatto nascere in tale miseria materiale e umana.
Con un ragionamento forse un poco troppo elaborato per un ragazzino di quell’età che non ha mai frequentato una scuola, Zain in ogni caso porta alla luce ineludibili e spinose questioni di pianificazione familiare e controllo delle nascite, inducendo immancabilmente lo spettatore a riflettere. Arrivando ad indagare dove si può dire che finisca la pura fatalità (la semplice sfortuna dell’essere nati in contesti simili ed essere di conseguenza costretti ad arrangiarsi come meglio si riesce) e dove invece inizi la responsabilità individuale (per esempio, nella decisione di trascinare in quella stessa crude e invivibile realtà nuove vite, per giunta in grande numero, per poi, magari, dare in moglie le femminucce alle prime avvisaglie di pubertà [ad un età in cui non può assolutamente esistere consenso ragionato né tantomeno reciprocità], al fine, si suppone, di alleviare un poco il disagio economico).
Altro tema cardine (e conseguente) è, ovviamente, quello dei diritti negati dell’infanzia. Al di là di questi aspetti centrali, diversi sono gli ulteriori temi trattati, o anche solamente sfiorati (l’immigrazione, l’emarginazione sociale, il razzismo, la condizione femminile), ma il film non si fa mai predicatorio, ricattatorio, didascalico, ed anzi si mantiene saldamente per quasi tutta la durata (gli ultimi cinque minuti, alla ricerca di una sorta di lieta fine, sono forse un po’ deboli) e coinvolge fin quasi a togliere il respiro (“colpa” non solo della narrazione, ma di una macchina a mano che tampina costantemente i protagonisti [con una perseveranza che sarebbe piaciuta a Zavattini]).
Un film da vedere, umanista e indimenticabile, che riesce vincitore anche grazie alla straordinaria prova del piccolo protagonista (nella realtà un immigrato con vicende similari alle spalle, poi emigrato in Norvegia) e all’ottima fotografia di Aoun.
Presentato in anteprima al Festival di Cannes 2018 dove si è guadagnato una standing ovation di oltre un quarto d’ora, Cafarnao viene finalmente distribuito nelle sale italiane nell’aprile 2019, seppur con un sottotitolo alquanto insulso (se caos è la traduzione del titolo originale suggerita dal film stesso, in che cosa consistano i miracoli in un film così duro e tragico solo i distributori italiani del film ne sono a conoscenza [distributori che hanno probabilmente solo voluto “sottilmente” rimarcare il collegamento con la tradizione evangelica]). Candidato all’Oscar come miglior film straniero, è uno dei due film (l’altro è Un affare di famiglia di Kore-eda) che avrebbero indubbiamente meritato la vittoria più dell’ultra-osannato Roma di Cuarón. Come noto, Cafarnao è anche il nome di un’antica città della Galilea nella quale, stando ai Vangeli, Gesù avrebbe compiuto diversi miracoli.
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sergio dal maso
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domenica 5 gennaio 2020
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cafarnao, il male che non vediamo
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“Ascoltami, se tutti devono soffrire per comprare con la sofferenza l'armonia eterna, che c'entrano i bambini? Rispondimi, per favore. È del tutto incomprensibile il motivo per cui dovrebbero soffrire anche loro (…) e se è vero che essi devono condividere la responsabilità di tutti i misfatti compiuti dai loro padri, allora io dichiaro in anticipo che la verità tutta non vale un prezzo così alto.” da “I fratelli Karamazov” - Fedor Dostoevskij
Cafarnao è un film che fa male.
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“Ascoltami, se tutti devono soffrire per comprare con la sofferenza l'armonia eterna, che c'entrano i bambini? Rispondimi, per favore. È del tutto incomprensibile il motivo per cui dovrebbero soffrire anche loro (…) e se è vero che essi devono condividere la responsabilità di tutti i misfatti compiuti dai loro padri, allora io dichiaro in anticipo che la verità tutta non vale un prezzo così alto.” da “I fratelli Karamazov” - Fedor Dostoevskij
Cafarnao è un film che fa male. Molto male.
Si esce scossi dalla sala, con la sensazione di avere ricevuto un cazzotto nello stomaco. Eppure non è una visione che si rinnega, anzi. La tragica storia del piccolo Zain ce la si porta dentro per molto tempo, indimenticabile come l’infinita tristezza del suo sguardo fiero.
Dopo il sorprendente incipit in cui il bambino denuncia i genitori, accusandoli di averlo fatto nascere, con una serie di flash-back viene ricostruita la sfortunata storia del piccolo protagonista, dalla durissima vita famigliare alla fuga disperata, in una continua discesa all’inferno raccontata come se fosse in presa diretta, in una sorta di neorealismo estremo.
Se la denuncia in tribunale è palesemente un espediente narrativo, quindi inventato, tutto quello che vediamo dopo appare invece, seppur aberrante, incredibilmente realistico.
Incredibile come Zain, che non va a scuola e lavora come se fosse un adulto, oltre a polverizzare le pastiglie delle medicine per spacciare droga sintetica. Come Sahar, venduta e data in sposa undicenne in cambio dell’affitto e di qualche gallina. Come Rahil, la ragazza etiope clandestina che per poter lavorare è costretta ad affidare il figlio neonato a un bambino. O come tutti gli immigrati in fuga dalla Siria che, essendo senza documenti, agli occhi della legge semplicemente non esistono.
Cafarnao fa male perché si percepisce che è tutto vero. Disturba perché, a parte il tema iniziale della denuncia dei genitori, non c’è nulla che sia inventato o solo immaginato.
Non abbiamo bisogno di sapere dalle dichiarazioni della regista Nadine Labaki che il ragazzino che interpreta Zain è veramente un profugo siriano, analfabeta e clandestino, senza diritti perché senza documenti. O che Rahil “all'indomani delle riprese della scena dell'arresto nell'internet caffè è stata realmente arrestata perché non possedeva documenti legali”. Si percepisce che “le lacrime di Rahil quando nel film si mette a piangere nel momento in cui finisce in prigione sono lacrime vere perché ha davvero vissuto quell'esperienza in un carcere altrettanto orrendo.”
La regista libanese ha impiegato tre anni per documentarsi sui campi profughi e sulla vita nei quartieri periferici di Beirut, incontrando e dialogando con migliaia di persone. Le riprese sono poi durate sei mesi con più di 520 ore di pellicola girata.
Sono tanti i temi che il film affronta, dall’invisibilità dei profughi di guerra costretti alla clandestinità alla miseria estrema delle baraccopoli della capitale libanese, passando per la disgustosa tradizione, ancora tollerata, delle spose-bambine.
A collegare tutte queste tematiche c’è il filo rosso dell’infanzia negata, dell’assurdità di far pagare i crimini degli adulti ai milioni di bambini che, naturalmente, non hanno alcuna colpa.
Per questo la macchina da presa della regista si muove all’altezza di Zain, lo segue incessantemente, discreta e senza morbosità, attenta a trasmettere i suoi stati d’animo e le sue emozioni.
Con un montaggio serrato e coinvolgente alterna i primi e i primissimi piani dei volti dei bambini alle riprese dall’alto del caotico squallore delle zone povere di Beirut. Non a caso Capharnaum significa caos e confusione.
La regista Labaki, che è anche l’interprete dell’avvocato di Zain, affronta le varie tematiche senza accusare nessuno, senza retorica né pietismo, senza azzardare risposte semplici a problemi complessi.
In un’epoca dove si semplifica e si banalizza qualsiasi argomento è importante guardare in faccia la realtà delle cose, coglierne la verità nella complessità. Ben vengano allora i film spietati e strazianti come Cafarnao, purché sinceri e intellettualmente onesti.
Qualche critico l’ha giudicato un film ricattatorio, con ridicole accuse di spettacolarizzazione del dolore. A Cannes invece ha avuto un’accoglienza trionfale e ha vinto il Premio della Giuria per essere poi candidato all’Oscar; in sala è andato benissimo anche in Italia, pur senza alcuna promozione, solo col passaparola.
Il piccolo interprete Zain Al-Rafeea alla fine ha avuto i documenti e l’asilo politico dalla Norvegia, dove si è trasferito con la famiglia.
Mai nella storia del cinema c’è stato un fotogramma finale più liberatorio. E per fortuna assolutamente reale.
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daniela montanari
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giovedì 25 aprile 2019
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cafarnao: confusione (ma anche "la città di gesù")
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Beirut, aula di tribunale: Zain di soli dodici anni, sta scontando una pena per aver commesso un grave reato. Tuttavia, si trova davanti alla corte perchè ha portato in giudizio i propri genitori. Averlo messo al mondo, in questo atroce mondo, è il capo d'accusa per il quale li ritiene entrambi colpevoli.
A ritroso nel tempo, nei mesi che precedono il giorno del verdetto, assieme a Zain lo spettatore si muove in Cafarnao: un caos che non si dipana, una confusione tale da cui è difficile distanziarsi. Fame, rabbia, ingiustizia, poi forza, determinazione, coraggio. E di nuovo paura, affetti, strazio. Tra macerie e uomini che si travestono al luna park, le due ore e più in cui si resta seduti non sono nulla al confronto della vera identità: l'attore che interpreta Zain è davvero un rifugiato al momento dell'inizio delle riprese del film, è davvero analfabeta, e la regista Nadine Labaki già premiata per "Caramel" nel 2007, lo trova e lo porta con sè sul set.
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Beirut, aula di tribunale: Zain di soli dodici anni, sta scontando una pena per aver commesso un grave reato. Tuttavia, si trova davanti alla corte perchè ha portato in giudizio i propri genitori. Averlo messo al mondo, in questo atroce mondo, è il capo d'accusa per il quale li ritiene entrambi colpevoli.
A ritroso nel tempo, nei mesi che precedono il giorno del verdetto, assieme a Zain lo spettatore si muove in Cafarnao: un caos che non si dipana, una confusione tale da cui è difficile distanziarsi. Fame, rabbia, ingiustizia, poi forza, determinazione, coraggio. E di nuovo paura, affetti, strazio. Tra macerie e uomini che si travestono al luna park, le due ore e più in cui si resta seduti non sono nulla al confronto della vera identità: l'attore che interpreta Zain è davvero un rifugiato al momento dell'inizio delle riprese del film, è davvero analfabeta, e la regista Nadine Labaki già premiata per "Caramel" nel 2007, lo trova e lo porta con sè sul set. Quasi come ogni novella a lieto fine pare che ora Zain, il vero Zain, viva in Norvegia con diritto di asilo e stia andando, per la prima volta nella sua vita, a scuola: sta imnparando a leggere e a scrivere.
E' singolare forse anche il doppio senso attribuito al titolo del film. Se da un lato è un sostantivo maschile per indicare un luogo caotico, dove regna qualcosa di ingovernabile dal punto di vista del disordine, dall'altro è iul nome di un'antica città della Galilea dove, secondo i Vangeli, visse Gesù predicando e compiendo numerosi miracoli.
Un film unico nel suo genere, che parla ad ognuno di noi, essendo - tutti - grandi "contenitori" di colpevolezza ed innocenza, di miracoli e caos.
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vanessa zarastro
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sabato 27 aprile 2019
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come sopravvivere a beirut
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L’area metropolitana di Beirut oggi conta circa due milioni di abitanti (quelli censiti), la metà dell’intera popolazione libanese. È la capitale dell’accoglienza, dove confluiscono molti profughi armeni, siriani, palestinesi e, in passato, anche gli ebrei cacciati dai paesi arabi. Il porto di Beirut è un punto di scambi internazionali essendo il più importante del Mediterraneo Orientale. Ha una tradizione di città cosmopolita ed è vivace dal punto di vista economico bancario e finanziario. È stata più volte distrutta e ogni volta si è ripresa, specialmente dopo i quindi anni (dal 1975 al 1990) durante i quali è stata teatro della guerra civile tra cristiano maroniti e musulmani.
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L’area metropolitana di Beirut oggi conta circa due milioni di abitanti (quelli censiti), la metà dell’intera popolazione libanese. È la capitale dell’accoglienza, dove confluiscono molti profughi armeni, siriani, palestinesi e, in passato, anche gli ebrei cacciati dai paesi arabi. Il porto di Beirut è un punto di scambi internazionali essendo il più importante del Mediterraneo Orientale. Ha una tradizione di città cosmopolita ed è vivace dal punto di vista economico bancario e finanziario. È stata più volte distrutta e ogni volta si è ripresa, specialmente dopo i quindi anni (dal 1975 al 1990) durante i quali è stata teatro della guerra civile tra cristiano maroniti e musulmani. Beirut è anche un importante centro culturale e accademico del Medio Oriente e sede della United Nations Economic and Social Commision for Western Asia.
“Carpenaum” (il titolo originale del film) si apre con le immagini aeree dei bassifondi sovraffollati di Beirut, senza alcun segno delle viste turistiche che si affacciano sullo scintillante Mar Mediterraneo. Il film, di fatto, fornisce l’occasione di uno slice of life anche su varie umanità che vivono in questo contesto, e sulla problematica dei loro rapporti.
In questo quadro, la regista Nadine Labaki segue le vicende di Zain (Zain Alrafeea), un bambino sans papier nato e cresciuto a Beirut in una famiglia poverissima che si arrabatta per sopravvivere. Dovrebbe avere circa dodici anni, e sei o sette fratelli. La sua famiglia ha un tetto in una specie di appartamento, dato dal libanese Assaad (Nour El Husseini), dove quei pochi tubi che passano lì perdono acqua e dormono tutti stipati sopra vecchi materassi rotti appoggiati a terra. Nessuno dei bambini ha il permesso di andare a scuola perché deve aiutare i genitori (Kawsar Al Haddad e Fadi Youssef) svolgendo vari lavoretti, come ad esempio preparare gli oppioidi affinché la madre possa venderli. Zain e la sorellina Sahar (Haita “Cetra” Izzam) più piccola di lui solo di un anno, confezionano anche delle bevande preparate da Assaad, che vendono per la strada.
Dopo che Sahar, appena ha le prime mestruazioni e raggiunge la pubertà, viene data in matrimonio ad Assaad in cambio dell’affitto, di due galline e tante cortesie, Zain, disperato per la separazione, si ribella a quella vita in cui i figli maschi vengono maltrattati, e le figlie femmine barattate. Fugge da casa e attraversa varie vicissitudini. Arriva al Luna park vicino al mare dove, in cerca di cibo e lavoro, conosce Rahil (interpretata dall’attrice Yordanos Shifera), una ragazza etiope clandestina, costretta a nascondere il figlio piccolo Yonas (Boluwatife Treasure Bankole), che lo ospita da lei in un rifugio di lamiera. Rahil lo tratta amorevolmente come un altro figlio e Zain in cambio guarda Yonas durante il giorno, mentre lei va a lavorare. È bravo, abituato a guardare i suoi veri fratellini e Yonas ci si affeziona.
Purtroppo un giorno Rahil viene arrestata in una retata di clandestini e Zain si ritrova a dover sopravvivere con il bimbo piccolo che ha appena imparato a reggersi sulle sue gambe. A un certo punto, in cerca di cibo, Zain si finge persino di un rifugiato siriano, così da poter convincere un'agenzia di aiuti a dargli latte in polvere e pannolini. Ciò mostra che esistono perfino delle gerarchie tra le vittime in una città di bisognosi.
Zain finirà per rivolgersi all’infido Aspro (Alaa Chouchnieh) che gli promette di dare Yonas a una famiglia per bene, e di far imbarcare lui per la Turchia o per la Svezia, come preferisce. Finito in prigione, dopo aver casualmente rincontrato Rahil, finirà per denunciare Aspro che si scoprirà essere un piccolo ras che gestiva un traffico di essere umani, e il piccolo Yonas sarà riconsegnato alla madre in lacrime.
Nadine Labaki (regista e attrice) usa un montaggio non lineare che parte dalla scena del tribunale e attraverso vari flash back spiega come mai il bambino si trovi lì e perché denunci i genitori, “colpevoli” di averlo fatto nascere in tale miseria materiale e umana.
I temi trattati, con la macchina a mano che non molla mai il protagonista, sono molteplici: quelli della sovrappopolazione, in particolare della riproduzione di figli per i quali non si può avere cura, dei diritti negati dell’infanzia, della vendita esseri umani, delle spose bambine, della difficoltà del vivere quotidiano in una città considerata la più colta e la più occidentale di tutto il medio-oriente. Argomenti molto dolorosi che sono la base sulla quale imbastire la dura battaglia di un bambino che vuole rivendicare al mondo la propria esistenza.
Per girare questo film la regista ha utilizzato un cast di attori non professionisti e tratto spunto dalle loro vite. In "Cafarnao" i confini tra realtà e finzione sono sfumati, un po’ come ha fatto Jonas Carpignano in “A Ciambra” del 2017 con una famiglia Rom insediatasi nella periferia di Gioia Tauro. Nadine Labaki assieme al marito Khaled Mouzanar musicista, hanno ottenuto con queste riprese, che la United Nations High Commission for Refugees si interessasse al caso di Zain e della sua famiglia che sono stati portati in Norvegia dove vivono a tutt’oggi.
La regista è la prima donna araba a essere candidata a un Golden Globe Ha già diretto “Caramel” nel 2005, “E ora dove andiamo” del 2011. "Cafarnao", è stato presentato in anteprima al Festival di Cannes 2018, dove è stato osannato, ma ha anche subito dure critiche, accusato di spettacolarizzazione della povertà e di retorica. In effetti, l’uso dei primi piani, del rallentato, dei cori e degli archi, enfatizza il tema, sottolineandolo con intensità. Ciononostante il film ha ottenuto una nomination agli Oscar 2019.
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