sebkey
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sabato 21 febbraio 2015
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un dramma sul potere, la vendetta e la dignità umana
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In uno stato immaginario, ma pericolosamente simile alla realtà odierna e alle esperienze vissute dal regista Mohsen Makhmalbaf, il potere è nelle mani di un feroce dittatore, un tiranno che con uno schiocco di dita può lasciare al buio intere città ma che è costretto alla fuga insieme al nipotino a causa di una rivoluzione interna.
Il film è un dramma morale sul potere, sulla vendetta, sulla dignità dell'uomo. Makhmalbaf filtra immagini crude e di violenza tramite gli occhi innocenti di un bambino, che non può essere responsabile degli eventi che lo circondano ma che ne è inevitabilmente parte integrante. E' una feroce accusa al potere di un dittatore, che secondo un contrappasso "dantesco" è costretto alle sofferenze che lui stesso ha imposto al suo popolo.
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In uno stato immaginario, ma pericolosamente simile alla realtà odierna e alle esperienze vissute dal regista Mohsen Makhmalbaf, il potere è nelle mani di un feroce dittatore, un tiranno che con uno schiocco di dita può lasciare al buio intere città ma che è costretto alla fuga insieme al nipotino a causa di una rivoluzione interna.
Il film è un dramma morale sul potere, sulla vendetta, sulla dignità dell'uomo. Makhmalbaf filtra immagini crude e di violenza tramite gli occhi innocenti di un bambino, che non può essere responsabile degli eventi che lo circondano ma che ne è inevitabilmente parte integrante. E' una feroce accusa al potere di un dittatore, che secondo un contrappasso "dantesco" è costretto alle sofferenze che lui stesso ha imposto al suo popolo. Ma allo stesso tempo vuol essere un amaro monito : la violenza non porta altro che nuova violenza, vendetta, odio e sofferenza.
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angelo umana
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venerdì 29 agosto 2014
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da dio e dal vs presidente
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La punizione più giusta per un tiranno: ridurlo alla condizione dei
suoi sudditi, fargli condurre la loro vita, con le stesse difficoltà
e penurie, niente più palazzi e scorte di guardie, né limousine o
aerei, niente più bardature né lusso, niente più “Altezza reale” e
“Vostra maestà”.
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La punizione più giusta per un tiranno: ridurlo alla condizione dei
suoi sudditi, fargli condurre la loro vita, con le stesse difficoltà
e penurie, niente più palazzi e scorte di guardie, né limousine o
aerei, niente più bardature né lusso, niente più “Altezza reale” e
“Vostra maestà”. Questo accade al protagonista del film, un
immaginario “presidente” di uno stato immaginato ma molto simile a
tirannìe esistenti che il regista ben conosce. Mohsen Makhmalbaf (da
ricordare tra gli altri “Viaggio a Kandahar” e “Il voto è segreto”
del 2001) non vive più a Teheran dove nacque 57 anni fa. Lavora
altrove dal 2005 – hanno cercato di assassinarlo due volte in
Afghanistan e due volte in Francia, lo racconta egli stesso - e sa
ben rappresentare “personaggi che da lontano fanno paura ma che da
vicino appaiono grotteschi e ridicoli” o “un dio caduto nell’inferno
che ha costruito per il proprio popolo”, parole sue alla conferenza
stampa di presentazione del nuovissimo film proiettato per la sezione
Orizzonti
alla 71. Mostra del Cinema a Venezia, “The President”.
All’inizio del film viene mostrata la strada centrale della capitale
di questo Stato immaginario, illuminata a giorno per celebrare la
grandezza del suo presidente, le periferie misere sono altra cosa e
si vedranno nel prosieguo. Una voce dagli altoparlanti declama la
grandezza di quel Paese, opera di “Dio dal cielo e del nostro
Presidente dalla terra”: l’accostamento tra divinità e potere ha
fatto nella storia rispettare o temere di più quest’ultimo. Il
“presidente” mostra al suo nipotino cosa egli può fare dall’alto del
suo palazzo, come ad esempio far spegnere e poi riaccendere le luci
della città con un semplice cenno. Dopo vari tentativi questo “gioco”
non riesce più, le luci non si riaccendono, i sudditi sono stanchi,
frustrati da tante angherie e si ribellano. “Questo Paese ha le ore
contate” viene detto, la famiglia presidenziale o reale fugge in
aereo e il “presidente” resta solo con l’affezionato nipotino di 5-6
anni, che crede di poter tornare al palazzo e che prende gli
imprevisti come un gioco (questo
ricorda “La vita è bella” di Benigni). La loro limousine dapprima è
bloccata dai dimostranti che lo cercano, poi da un gregge di pecore
che la accerchia, si travestono da poveretti, il nipotino non sa
nemmeno come pulirsi dopo la cacca, non l’ha mai fatto, neanche il
nonno s’è mai sognato di dovergli pulire il sedere. Gli scempi e i
delitti che vedranno nella loro fuga sono come un viaggio nelle
viscere infime del Paese che il tiranno guidava col terrore, in quel
peregrinare si accompagneranno perfino a dei “detenuti politici” ora
fuggiti dalle prigioni. Il presidente-dittatore apprende che dai
sudditi era ritenuto “un codardo come i suoi soldati”, che infatti
l’hanno presto abbandonato. Il bambino arriverà presto a dire “Non mi
piace questo gioco”.
Nei suoi 115 minuti il film è scorrevole e senza stasi, satirico e
tragico insieme, con riprese che documentano le azioni come dal vivo.
Non meraviglierebbe che ricevesse qualche riconoscimento a Venezia.
Viene spontaneo un parallelo tra la vita che conducono molti nostri
politici, che nella politica hanno scoperto un piccolo eldorado e
perciò si sono appressati a quel “mestiere”, e le condizioni
dell’”uomo qualunque”. Oltreché una giusta pena per il dittatore, il
regista, ancora parole sue, ha voluto suggerire di “non dare per
scontata la libertà” ma anche, alla resa dei conti finale col
“presidente” riconosciuto dai sudditi in rivolta, che una nuova
democrazia non dovrebbe basarsi sulla vendetta.
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peer gynt
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mercoledì 27 agosto 2014
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superficiale apologo sull'arroganza del potere
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DIttatore di un paese non meglio identificato è colto di sorpresa dallo scoppio violento della rivoluzione e deve cercare di salvarsi, col nipotino di cinque anni, travestito da povero musicista da strada, mischiandosi con il suo popolo, di cui sente ad ogni passo quanto odio esso nutre nei suoi confronti.
Onesto ma retorico e superficiale apologo nel quale il regista iraniano cerca di riflettere sulla cattiva coscienza senza scusanti di un potere cieco, sbruffone e arrogante fino all'eccesso. La realtà di molti paesi mediorientali è sicuramente all'origine di un film simile, che però sceglie la via del dramma neorealistico senza farsi mancare diverse scene-madri del genere (dalla donna uccisa sotto gli occhi del marito, portato via dai soldati, al ritorno a casa del dissidente che ha vissuto anni di carcere e torture tenuto in vita solo dall'amore per la moglie, che però ritrova risposata con figlio).
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DIttatore di un paese non meglio identificato è colto di sorpresa dallo scoppio violento della rivoluzione e deve cercare di salvarsi, col nipotino di cinque anni, travestito da povero musicista da strada, mischiandosi con il suo popolo, di cui sente ad ogni passo quanto odio esso nutre nei suoi confronti.
Onesto ma retorico e superficiale apologo nel quale il regista iraniano cerca di riflettere sulla cattiva coscienza senza scusanti di un potere cieco, sbruffone e arrogante fino all'eccesso. La realtà di molti paesi mediorientali è sicuramente all'origine di un film simile, che però sceglie la via del dramma neorealistico senza farsi mancare diverse scene-madri del genere (dalla donna uccisa sotto gli occhi del marito, portato via dai soldati, al ritorno a casa del dissidente che ha vissuto anni di carcere e torture tenuto in vita solo dall'amore per la moglie, che però ritrova risposata con figlio).
Per quanto ben girato, il film manca di originalità come riflessione sul potere e sulla violenza che genera violenza, non approfondisce il tema e resta in superficie, malgrado il pur lodevole invito alla comprensione e al rifiuto della vendetta omicida.
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