Jimi - All Is By My Side |
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Un film di John Ridley.
Con André Benjamin, Hayley Atwell, Imogen Poots, Ruth Negga, Andrew Buckley.
continua»
Biografico,
durata 118 min.
- Gran Bretagna, Irlanda, USA 2013.
- I Wonder Pictures
uscita giovedì 18 settembre 2014.
MYMONETRO
Jimi - All Is By My Side
valutazione media:
2,98
su
-1
recensioni di critica, pubblico e dizionari.
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Jimi - All is by my sidedi catcarloFeedback: 13499 | altri commenti e recensioni di catcarlo |
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martedì 30 settembre 2014 | |||||||||||||||||||||||||||||||||||||
Il film biografico a carattere musicale è uno dei generi più difficili da praticare, in special modo quando la materia è ancora viva e i tifosi in circolazione rimangono numerosi. La faccenda si complica ulteriormente se ci aggiungiamo la famiglia che rema contro tanto da vietare l’utilizzo delle musiche firmate dal caro estinto se non può mettere bocca nella produzione (la famelicità di generazioni di Hendrix si è confermata ancora una volta da manuale) e l’attore protagonista – in arte André 3000 degli Outkast – che è si molto somigliante, ma ha anche quindici anni di più del suo personaggio. Per ovviare al primo problema, l’esordiente John Ridley (sceneggiatura da Oscar per ’12 anni schiavo’) si affida alla chitarra di Waddy Wachtel, supportata dalla sezione ritmica composta da Leland Sklar e Kenny Aronoff, e al fatto che le cover hendrixiane furono sempre numerose mentre il secondo viene superato dalla sospensione d’incredulità grazie anche a un interprete che non si lascia sfuggire l’occasione di realizzare al meglio il sogno di una vita (peccato solo per il doppiaggio non all’altezza). Il risultato è un film non certo esente da difetti dal punto di vista narrativo, ma che si rivela vitale nel ritrarre un uomo in un preciso momento storico e poco male se coloro che più se ne dispiaceranno saranno proprio i fan di Hendrix. La storia si concentra su di un anno fondamentale nella vita del chitarrista, durante il quale egli passa da ruoli di supporto in piccoli club di New York all’aereo che lo porterà alla consacrazione di Monterey: scoperto da Linda, ex moglie di Keith Richards, dopo un breve prologo statunitense Jimi si trasferisce a Londra dove getta le basi di una carriera breve, ma dalla quale non è possibile prescindere. Procedendo per quadri slegati tra loro e lasciandosi andare a qualche vezzo autoriale – l’audio fuori sincrono, il fermo immagine sui primi piani dei personaggi – Ridley prova a descrivere il mondo di un introverso dal talento immenso, talmente concentrato sulla musica e su se stesso da risultare ora afasico ora semplicemente egocentrico nei confronti degli altri a cominciare dalla sua ragazza Kathy (Hayley Atwell). La descrizione del loro rapporto è uno degli aspetti che meno funzionano con il suo succedersi di prendersi e mollarsi che rimane in superficie senza un approfondimento psicologico che sarebbe risultato assai stimolante in special modo quando entra in scena la groupie Ida (Ruth Negga), terzo vertice del triangolo: in più con lei la droga diventa per poco tempo protagonista, anche se troppo presto dimenticata. Molto meglio è sviluppata la relazione, tutta costellata di detto e non detto, tra Jimi e Linda, grazie anche alla misurata ed efficace prova di Imogen Poots: il lato professionale e quello personale si mischiano sullo sfondo della vitale scena musicale di quella Londra di metà anni Sessanta, dove in piccoli locali fumosi si agitavano molti musicisti che avrebbero fatto la storia. Oltre che da una mirata colonna sonora, la ricostruzione (fatta in gran parte in Irlanda) di quell’età colorata è ben resa dalla fotografia dai colori caldi di Tim Fleming unita all’inserimento di materiali d’epoca che ricordano che, magari più alla luce del sole, era ancora viva anche un’Inghilterra tradizionalista, figlia di un passato che non voleva passare. A questo tema si può ricollegare l’accenno alle tensioni razziali, ma pure qui si sorvola in gran fretta, anche se forse con la giustificazione che Jimi era assai poco interessato alla questione: in ogni caso, il Michael X di Adrien Lester finisce per essere poco più che una macchietta. Gli altri protagonisti (bianchi) di quella stagione ci sono tutti, ma restano sullo sfondo - una battuta per Clapton (Danny McColgan) e poco più – e funziona l’idea di identificarli subito con una sovrascritta così lo spettatore può risparmiarsi il chi-è-quello e concentrarsi sulla storia. Il discorso è invece diverso per il debuttante produttore Chas Chandler (il cui miscuglio di dubbi ed entusiasmi è portato in scena da Andrew Buckley) e, malgrado il pochissimo spazio, per la tricologica Experience (Oliver Bennett e Tom Dunlea). Come detto, la musica di Hendrix è per forza di cose poca, ma ripresa in modo efficace, come nella ‘sbiancatura’ di Manolenta al loro primo incontro o la ‘Sgt. Pepper’ in apertura dell’esibizione al Saville Theatre (e con il bonus di ‘Wild thing’ sui titoli di coda): non la protagonista principale, ma un (fondamentale) tassello per raccontare l’uomo che la suonava.
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