Pietà |
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Un film di Kim Ki-Duk.
Con Jung-Jin Lee, Jo Min-Su
Titolo originale Pieta.
Drammatico,
durata 104 min.
- Corea del sud 2012.
- Good Films
uscita venerdì 14 settembre 2012.
- VM 14 -
MYMONETRO
Pietà
valutazione media:
3,73
su
-1
recensioni di critica, pubblico e dizionari.
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Ecco Kim Ki-duk il Van Gogh coreano che ha stregato Venezia
di Curzio Maltese La Repubblica
I premi servono a fare polemiche piuttosto che a segnalare un artista. Ma sarebbe bello se il meritatissimo Leone d' Oro assegnato dalla giuria di Michael Mann a Pietà riuscisse ad avvicinare il pubblico a uno dei più originali artisti della scena mondiale. Chi è Kim Ki-duk? Una specie di Van Gogh coreano che ha scelto con la propria biografia e con l' arte di rompere tutte le convenzioni, nell' urgenza di esprimere sentimenti assoluti. Nella vita ha fatto l' operaio e il pescatore, il marine dell' esercito coreano e il predicatore, il pittore di strada a Parigi e il monaco su un' isola. Alla premiazione di Venezia ha cantato un' aria popolare e salutato col pugno chiuso. Fra tanti anticonformisti di maniera e per interesse, con conto in banca milionario e lo staff di esperti di marketing alle spalle, Kim Ki-duk è un vero artista in lotta contro un sistema dove conta soltanto il danaro. Pietà è una fiaba oscura contro il capitalismo girata con pochi soldi e senza scomodare grandi scenari planetari, complotti o trame della finanza di Wall Street. L' azione si svolge nella vecchia periferia operaia di Seul, ormai stravolta dai grattacieli delle corporations, e questo è già racconto. Un uomo giovane, bello, con un giubbotto di pelle griffato, ogni mattina si alza e va a riscuotere i debiti per conto di un usuraio mafioso. È spietato, algido, capace di mutilare o uccidere chi non paga i suoi padroni. Un giorno per strada è inseguito da una donna di mezza età, ancora bella, che dice di essere sua madre. La madre che l' ha abbandonato trent' anni prima. La prima reazione è furibonda, ma la donna riuscirà ad aprire il cuore del giovane e a cambiargli il sentimento verso gli altri. Il resto della storia è giusto lasciarla alla meraviglia dello spettatore, ricca com' è di colpi di scena, forse un po' troppi. È questo forse l' unico difetto di un film magnifico, inesorabile, che concentra in un tempo breve di racconto, cento minuti, la rivoluzione di un' anima. Un altro passo del percorso unico di questo regista che in passato ha regalato alcuni capolavori, amati non soltanto dalla critica, come Ferro 3, L' isola, Bad Guy, Primavera, estate, autunno, inverno e ancora primavera, oltre allo straordinario documentario sulla propria esistenza da eremita Arirang, che porta lo stesso titolo della canzone intonata a Venezia. Le cronache si sono soffermate a lungo sulle scene di violenza, aggressioni e stupri. In genere, quando vedo questa roba al cinema, mi alzo ed esco all' aria. Ma in Kim Ki-duk la crudeltà non è mai gratuita, tanto meno compiaciuta. È il tratto nero intorno alle figure di Van Gogh. Serve a far splendere meglio il colore delle passioni. Alla fine ciò che resta nella memoria dello spettatore non è il guizzo di sangue, ma la pietà di una madre, il bisogno disperato di amore di un uomo. Levando lo sguardo, un panorama di umanità asservita a un sistema disumano. Gli attori protagonisti, Lee Jong-jin e Cho Min-soo, sconosciuti da noi, ma celebri in Corea, sono straordinari. Il terzo protagonista è la periferia di Seul, lo stesso quartiere operaio dove negli anni 50 era emigrata la famiglia del regista. Un paesaggio fisico e umano universale. Non si chiamavano del resto «coree»i nostri ghetti per immigrati del Sud degli anni 50?
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