Dall'Oriente una grande lezione.
di Pino Farinotti
Il film di Asghar Farhadi, iraniano, può senz'altro rappresentare un nuova vicenda del cinema. Rimando senz'altro alla recensione di Zappoli, che condivido, dalla quale parto. Lettura storica dopo lettura critica. "Una separazione" parte da un testo completo, direi perfetto, per sostanza, simboli, dialogo, ritmo e, mi espongo, letteratura. Non esiste, in tutto il racconto, un momento di raccordo che rallenti il racconto. Anzi, i raccordi accelarano. Una parabola segue l'altra, con cambi, anzi salti di direzione, con episodi umani, piccoli, domestici che innescano, trenta secondi dopo, un episodio sociale, assillante, sproporzionato. Nader, che vive un momento famigliare infelice – si sta separando, appunto- furibondo per aver visto il padre malato di alzheimer legato, a terra, quasi morente, abbandonato dalla badante, si infuria con la donna, la spinge oltre la porta di casa. Il giorno dopo c'è già un processo in corso: la donna era incinta, è caduta sulle scale, ha abortito. Nader inconsapevole, rischia l'accusa di tentato omicidio -il feto, dopo il quarto mese viene ritenuto un essere umano completo- rischia il carcere, rischia tutto. Torno alla scrittura: è alta, e mi espongo di nuovo, è da libro. Chi mi conosce sa bene quanto prediliga la peculiarità, la qualità del testo. Con un dato esatto, inconfutabile: esistono film tratti da libri, non libri tratti da film. Alludo a roba seria naturalmente. Paradossalmente potrebbe esserci un libro tratto da questo film, col dialogo già pronto, con la possibilità in più di introspezione e approfondimento che offre la pagina scritta. C'è di più, spesso i film di quelle culture, dell'Oriente lontano o meno lontano, sono opere di qualità, ma contestualizzata: piccolo realismo autoctono, appunto, vicende già raccontate molti decenni prima dal cinema occidentale, anche dal nostro, certo più avanzato. Sono film enfatizzati dai festival, che poi non trovano neppure una distribuzione e non meritano di trovarla. Certo ci sono state grandi eccezioni universali, ne dico due, di getto, Kurosawa e Zhang Yimou, gente che ha insegnato anche all'Occidente.
In alto
Farhadi, non solo regista, ma scrittore e produttore del film, si assesta in alto, da quelle parti. Gli episodi in Teheran valgono per tutte le culture, se non fosse che le donne devono indossare (è la legge, severa) il chador, ti sembra di essere in una qualunque città del mondo, grande traffico (privilegiate le Peugeot), consumo, cellulari, disinvoltura generale di comportamento, chi ha soldi, chi non ne ha. Non è la città, non è il popolo di Khomeini. Almeno non lo sembra, o Farhadi non lo fa sembrare. E poi la giustizia. I personaggi si trovano continuamente di fronte a un giudice, di pace diremmo noi. All'inizio marito e moglie per la separazione, poi per l'aborto, e alla fine per la ragazzina, l'undicenne, figlia della coppia, che deve scegliere se stare con mamma o papà. Il giudice fa, giuridicamente, tutte le parti, del gip, del piemme. Ha buon senso, cerca di mediare. Cerca di compensare quell'ordine giudiziario. Chissà se è davvero così.
Però c'è una variabile, decisiva: il corano. I personaggi, spesso per formula e abitudine buttano lì "che dio sia con te". Ma Razieh, la donna che ha perso il bambino è una credente vera. Non fa nulla che non sia permesso dal corano. Suo marito è una mina vagante, un violento incontrollabile, minaccia tutti. Le famiglie arrivano, faticosamente, dolorosamente, a un accordo. Nader risarcirà la donna che però ha dei dubbi, anzi è sicura che l'aborto sia stato causato dal contatto con una macchina, non dalla spinta dell'uomo. Nella riunione finale, privata, della famiglie, Nadar sta firmando gli assegni ma pone una condizione, chiede alla donna di giurare sul corano. Razieh confessa al marito la verità. L'uomo è pieno di debiti, rischia la prigione, i soldi del risarcimento lo salverebbero, ma Razieh è irremovibile, teme dio, immagina punizioni tremende per la menzogna. Non si piega. Quei soldi avrebbero risolto, appianato tutto: il danno, i bisogni, le coscienze, tutto aggiustato in termini civili e di reciproca utilità. A New York, come a Londra come dovunque, quegli assegni sarebbero passati di mano. Ma la semplice, fedele Razieh ha fermato tutto. Il quesito, grande, è proprio questo: che modello di variabile può essere ritenuto il corano che in quel Paese ferma il logico percorso umano e civile.
Coscienza
Ma Farhadi rafforza la sua indicazione attraverso un'altra coscienza, senza mistica e superstizione. È quella di Termeh, l'undicenne contesa. Ha capito tutte le verità e i trucchi: le debolezze e le mancanze dei genitori. Alla fine, con tutti i nodi sciolti, a famiglia riunita si trova di fronte il giudice che le chiede "allora vuoi stare con la mamma o col papà". La ragazza esita. Il giudice le domanda se preferisce decidere senza la presenza dei genitori. Risponde di sì. Così, mentre Nader e la moglie aspettano fuori... scorrono i titoli. Non conosceremo la scelta di Termeh. È lei il modello catalizzatore, con la sua intelligenza, la sua coscienza e la sua lettura delle vicende. È lei l'Iran che forse verrà, anche grazie a chi l'ha guidata in questo film.
L'Iran è un paese complesso, forse pericoloso, ed è una piattaforma culturale schiacciata, certo pericolosa. Che in questo contesto così difficile un autore come Asghar Farhadi riesca a comporre un'opera così libera, profonda e universale è quasi un miracolo. E segue il suo About Elly, altro titolo importante. Dunque non è il Caso. Il regista si pone, come ho detto sopra, come autore-guida nel movimento generale del cinema. Andrà seguito.
I titoli di questa ultima tornata di film, magari enfatizzati, dovrebbero rifarsi alla concretezza di questo iraniano. Sorrentino (This Must be the Place) confeziona una scatola con un bel nastro colorato, che contiene un'altra scatola e poi un'altra ancora. Alla fine, sciolta l'ultima stagnola, l'opera si riduce a un cioccolatino neppure saporito. Olmi (Il villaggio cartone) chiacchiera troppo, esterna tutto, con concetti astratti e conosciuti. Toglie invece di aggiungere. Che la nuova lezione ci venga da una cultura che ha trasformato la sofferenza in missione e poetica, da un autore capace di stare così in alto... deve fare riflettere.