In concorso alla 64a Mostra del Cinema di Venezia, il lungometraggio di A. Porporati non è che una metafora applicabile ad ogni esistenza, articolata secondo le tonalità emotive della vita del protagonista, quasi fosse un’imposizione del destino a cui non è possibile potersi sottrarre.
Il film è troppo lento, senza alcun dinamismo, di uno standard quasi mediocre, l’unico merito è di aver raccontato la mafia dalla prospettiva interna, nella sua squallida quotidianità, mettendo a nudo la spietata mentalità dei falsi galantuomini e seguendo tra violenza e ipocrisia, il cursus honorum del protagonista.
Porporati mette in scena tutte le contraddizioni di un mondo, quello di “Cosa Nostra” che obbliga le leggi a sottomettersi alla violenza, l’uomo ad annullare le percezioni, la coscienza ad ignorare lo spirito critico e conclude la parabola con la conversione del protagonista, virtuosamente interpretato dal L.Lo Cascio, che cresciuto nell’humus mafioso, tra la morale disumana, gli intrighi e i tradimenti delle cosche siciliane, riesce ad ascoltare lo spirito etico della sua umanità e a passare dall’altra parte della barricata.
Tutto appare già descritto, la pellicola non presenta nulla di sconvolgente e appassionante, Porporati non riesce in alcun modo a creare momenti di tensione e di suspance. Se superficialmente viene narrato, con visibile ed eccessiva semplicità, un mondo immutabile, divorato dalla corruzione, dilaniato dalla violenza e sconvolto dalle profonde contraddizioni, è solo applicando un’ottica assolutamente intimista e introspettiva che si può cogliere la tensione e la drammaticità dei vincoli che condizionano l’individuo.
CLIO PEDONE
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