Belli e dannati

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Un film di Gus Van Sant. Con River Phoenix, Keanu Reeves, James Russo, Rodney Harvey.
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Titolo originale My Own Private Idaho. Drammatico, durata 102 min. - USA 1991. MYMONETRO Belli e dannati * * * - - valutazione media: 3,41 su -1 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
   
   
   

Irene Bignardi

La Repubblica

Chissà cosa direbbe Francis Scott Fitzgerald del fatto che un suo glorioso titolo, sotto cui ha viaggiato per settant’anni una straziante storia d’amore e infelicità tra i belli e dannati dell’età del jazz, è ora il titolo di una storia di belli e dannati dei nostri giorni. Con una non piccola differenza. Che i suoi personaggi consumavano la loro dannazione all’interno di un rapporto uomo-donna, negli splendori sofisticati della ricca e colta America “transatlantica”. Mentre Mike e Scott, i due protagonisti di My Own Private Idaho, diventato appunto in italiano Belli e dannati, consumano la loro bellezza e la loro dannazione all’interno di un rapporto omosessuale complicato da “marchette”, droga, vita letteralmente “on the road” (si dorme spesso per strada, nel film, e dorme soprattutto Mike, che per via della sua narcolessia si addormenta nei momenti di stress) e, alla fine, incrinato da quelle tentazioni eterosessuali che in un film brillante, e francese, si chiamerebbero il vizietto.
Diventato un film di culto internazionale da quando è stato presentato a Venezia 1992, e non solo all’interno della comunità gay, Belli e dannati è un film più affascinante che riuscito, più curioso che coerente, più strano che compiuto. Un’esplosione di anarchia sia formale sia sostanziale, con cui Gus Van Sant disegna in assoluta libertà il suo
Chant d’amour anni novanta. Ma senza scandalo, senza forzature, senza pruriti. Proponendo la “diversità” con la stessa naturalezza, e la stessa attenzione alle ragioni psicologiche, con cui la proponeva, vent’anni fa, Domenica, maledetta domenica.

E andando al di là. Perché la storia che Belli e dannati racconta non è tanto quella di un amore omosessuale che incontra sulla sua strada gli scogli di una tentazione eterosessuale (Chiara Caselli, sempre selvatica, intensa e poco chiacchierona), ma quella di una inestirpabile differenza di classe. Scott e Mike (rispettivamente il fascinoso Keanu Reeves e il tenerissimo e bravo River Phoenix) rappresentano i due poli della società americana. Mike è un poveraccio che vive alla giornata, uno sradicato che non sa quasi nulla della sua famiglia, una “marchetta” così nevrotica che rischia sempre di addormentarsi prima di concludere con i suoi clienti, uomini o donne che siano. Scott è un giovane “aristocratico” ribelle (suo padre, scopriamo, è il sindaco di Portland), la sua omosessualità è soprattutto una ribellione, la sua ribellione un modo di affermare la sua identità.
Con una delle tante bizzarrie della sua sceneggiatura, travestendolo appena sotto gli stracci contemporanei e trasportando la celebre taverna in un miserabile appartamento abbandonato, Gus Van Sant inserisce di peso nel film un bel pezzo dell’Enrico IV di Shakespeare (parte i), regalando al capriccioso e ribelle Scott le battute di Hal, il principe scavezzacollo che diventerà poi Enrico v, e reincarnando Falstaff in Bob, il leader tragico-grottesco della gang a cui i due ragazzi appartengono. E, come Hal, anche Scott, al momento opportuno, finito l’esperimento avventuroso, tornerà nel suo mondo dorato, mentre all’amico abbandonato non resta che rimettersi per strada.
Tanto Drugstore cowboy era coerente e freddo, altrettanto Belli e dannati è sgangherato nella struttura e caldo. E così se la dichiarazione d amore di Mike all’amico attorno al fuoco di un bivacco notturno è di conturbante intensità emotiva, la scelta estetizzante di fissare alcuni incontri erotici in immagini fisse sfiora il cattivo gusto; e si direbbe quasi che situazioni e svolte narrative siano inventate lì per lì secondo l’umore del regista, tra surrealismo e libertà godardiana, tra improvvisazione e parodia. Ma se il film non convince sino in fondo, le qualità del regista sì: forse, assieme a Shakespeare, gli sarebbe servito un secondo sceneggiatore di vaglia.
Da Irene Bignardi, Il declino dell’impero americano, Feltrinelli, Milano, 1996


di Irene Bignardi, 1996

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