Irene Bignardi
La Repubblica
Balia coi lupi, che Kevin Costner ha diretto e coprodotto oltre che interpretato, è un debutto impressionante (guardate un po’, signori del minimalismo, che cosa si può fare: e non si dica che è solo questione di soldi). È vero che gli si possono rimproverare - ed è stato fatto anche con qualche invidiosa acrimonia - troppi controluce, troppi tramonti, molte debolezze che sfiorano il manicheismo, e, a tratti, un culto dello spettacolo esercitato a spese del rigore che il film sembra promettere all’inizio: ma Balia coi lupi lascia scorrere le sue tre ore (e tre minuti) tra divertimento ed emozioni da vecchi tempi. In passato, lo si sarebbe definito un bel film per famiglia. Con un tocco di correttezza politica in più.
Il film di Costner non è certo il primo western dalla parte degli indiani, come spera di farci credere il tag line, la frase di lancio del battage pubblicitario che lo accompagna. Ma è certo il solo western liberai di questi ultimi vent’anni, durante i quali il western ha sofferto di autoreferenziahismo e di citazionismo, ad affrontare il mito del West, oggetto di tanto revisionismo annunciato, con una passione e un realismo che vanno tuttavia in direzione della leggenda anziché della demistificazione.
Anche Kevin Costner racconta di che lacrime e di che sangue grondi il mito della frontiera - nel caso specifico, di quella sua porzione che si identifica con le grandi pianure del South Dakota nel 1860. Ma lo racconta con tanta innocente semplicità (o con tanta controllata furbizia), con tanto calore romantico, incarnando un personaggio così abilmente costruito per piacere, da costringere il pubblico ad accettarlo.
La storia, nata da un trattamento di Michael Blake poi diventato un libro, racconta come John Dunbar, un tenente dell’esercito federale disgustato dagli orrori della guerra di secessione in cui si è distinto per un gesto di eroismo suicida, chieda come premio di andare a conoscere la frontiera prima che sparisca.
Uomo ferito nella propria pace interiore, in fuga dalla cosiddetta civiltà - e, se vogliamo spingere un po’ in là la proiezione, anticipatore di tutti i ribelli in fuga dei due dopoguerra del Novecento - Dunbar ritrova la pace perduta nella solitudine della natura, attraverso una disciplina quotidiana degna di Robinson Crusoe. Ma presto entra in contatto con una tribù indiana, è costretto a scoprire che l’indistinto (a occhi “bianchi”) paesaggio umano dei nativi ha le sue sfumature, apprende per esperienza che ci sono i feroci Pawnee e i tranquilli Sioux, e che con questi si può vivere tranquillamente, assimilandosi a poco a poco ai loro ritmi e al loro gusto per la vita pacifica.
L’ufficiale, il bianco, il “razzista” diventa così “Balla coi lupi” (il nome che i Sioux gli danno quando lo vedono impegnato in una danza solitaria con un lupacchiotto solitario come lui: e la scena è di irresistibile simpatia). Succede anche che Dunbar si innamori di una loro donna - che per maggior semplicità linguistica e ideologica si rivela essere una bianca adottata, ed è Mary McDonnehl, brava anche se un po’ piagnucolosa - e che combatta accanto a loro contro gli aggressori Pawnee. Ma l’armonia, che Dunbar vede come la maggior virtù dei Sioux, non è di questo mondo: i soldati americani torneranno a riprenderselo, rivelandosi molto più incivili dei selvaggi che combattono.
Balia coi lupi ha la forza e i difetti della sua semplicità e della sua programmatica generosità. A momenti di grande precisione antropologica (tra l’altro i Sioux parlano la loro lingua, e sono stati “sottotitolati”) affianca gli stereotipi formali del western da Cinemascope, è grandioso nella sua ideologia della fuga ma scivola su banalità sentimentali, offre scene di straordinaria efficacia (la corsa dei bufali è un pezzo di cinema da antologia) e ingenuità di sintassi narrativa. Ma, grazie anche alla simpatia naturale di Kevin Costner e degli attori indiani, tra cui il saggio Uccello scalciante (che nella vita si chiama Graham Greene), conserva una qualità emozionante: quella di trasmettere intero un sentimento e un’idea, l’invito a conoscere l’altro prima di decidere che va combattuto e sterminato.
Da Irene Bignardi, Il declino dell’impero americano, Feltrinelli, Milano, 1996
di Irene Bignardi, 1996