I russi sono vicini a Berlino. La fine della dittatura nazista è ormai questione di giorni, forse di ore. Adolf Hitler vive segregatoin un bunker l’ultimo atto della sua epopea criminale. Le dodici giornate, a partire dal 20 aprile 1945, giorno dell’ultimo compleanno del Führer, vengono narrate da una giovane impiegata…
«Se la guerra è persa, non mi importa che il popolo muoia. Non verserò una sola lacrima per loro, non meritano nulla di meglio». La strategia fatale di Hitler, nel film Bruno Ganz, è tesa a distruggere e distruggersi. L’imperativo è non lasciare nulla ai propri avversari. Far trovare “terra bruciata” al nemico. L’ordine vale per tutti: combattere fino alla morte. Non c’è nessun futuro senza il nazionalsocialismo. I pochi che stanno nel rifugio possono scegliere. Arrendersi o farla finita. E’ la resa dei conti. Chi fino a quel momento non ha mai dubitato della vittoria finale comincia a vedere la disfatta. Inizia a capire l’unico finale ammesso per un progetto basato su razzismo e fanatismo. C’è qualcuno che spera ancora di vincere la Seconda Guerra Mondiale? Solo qualche pazzo e un ragazzino. A combattere per le strade, in effetti, non è rimasto che un piccolo gruppo di milizie senza comando e gli adolescenti della Gioventù Hitleriana. Tra questi c’è Peter, un tredicenne orgoglioso di aver distrutto due carri armati russi. Anche lui, paradossalmente uno degli ultimi baluardi dello sfasciato esercito tedesco, compirà un percorso interiore e capirà l’inganno alla base del regime. La sua storia si intreccerà a quella di Traudl Junge, l’ultima segretaria del Führer e al destino del Dottor Schenck, sceso in campo per aiutare i sopravvissuti durante il fuggi fuggi generale da Berlino. I soli personaggi del film che aprono gli occhi e si accorgono, sebbene in ritardo imperdonabile, delle assurdità della dittatura. Nel bunker ci sono solo psicopatici pronti al suicidio e qualche soldato spaventato. La forza del film di Oliver Hirschbiegel è proprio questa. Ricostruire le ultime ore del Reich focalizzando il racconto sul fetido nascondiglio. Tutto è legato a quel luogo solenne. Elemento questo che collega La caduta al precedente The Experiment, altro film claustrofobico oltre misura. A dire il vero non mancano efficaci scene di massa, dal ritiro delle truppe dai palazzi del potere agli scontri armati con l’esercito russo. Eppure tutto passa da quel luogo desolato in cui ogni cosa finisce. Il covo blindato rimanda alla reale portata dell’ideologia nazista. I discorsi sulla razza sono finiti in uno scantinato impolverato. Uno sgabuzzino arredato con qualche buon divano in cui Hitler, negli ultimi giorni poco più che un paranoico, si toglie la vita. Alcuni passaggi del film, di conseguenza, prediligono le inquadrature sui personaggi rispetto a quelle più larghe. La disperazione si legge direttamente sul volto dei protagonisti, tutti attori bravissimi. Una grammatica delle passioni fatta di attimi di sospensione, sguardi di terrore ed inutili espressioni di speranza. La narrazione procede attraverso le facce degli occupanti del bunker. Le maschere più belle e terrificanti sono quelle di Josef Goebbels e della moglie Magda. Ma non c’è via di scampo. Ognuno va incontro al proprio destino inesorabile. La caduta è una rilettura originale degli ultimi giorni del Reich e interpreta da vicino i giorni della resa finale. La storia in primissimo piano. Questa volta non è un modo di dire.
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