L’assonanza del titolo fra Gomorra e camorra ha il compito di specificare il peccato rovesciando il mito sicché con la polvere dei millenni ne cadano anche i vermi. Così Garrone è l’unico che potesse affrontare il progetto-Gomorra non solo perché capace di rendere nel documento (come in Terra Di Mezzo e Ospiti) ma anche perché il suo filmare estrae dalle vite un pretesto di crescita civile. Il suo non è un cinema farmacologico ma lacerante: apre tagli sul corpo e ci scava a mani nude.
L’incipit è la sezione più espressiva del film. La realtà si trasfigura alla luce della lampada alogena, mentre il suono delle ventole annuncia un decollo. La funzione dell’incipit è qui metateatrale, serve a tradire i personaggi in scena per comunicare in segreto con lo spettatore, per dirgli della dimensione reale ma alterata alla quale si accede. Da lì in poi il regista si muove con neutralità. La sua presenza è discreta quanto un occhio staccato dal corpo e, in virtù di questa posizione simmetrica rispetto alla scena, gli agguati, tutti gli agguati meno l’ultimo, sono vissuti dall’interno, dall’ottica di chi l’agguato lo subisce.
Il realismo della narrazione è nella presenza costante del denaro a ribadire che la camorra non è principi ma economia. Ma la volontarietà dell’associazione è la questione sociale principale. I ragazzi subiscono il fascino di quanti nel loro microcosmo hanno ciò che vogliono: ogni piaga umana nasce dai limiti mentali, che qui coincidono tragicamente con limiti geografici. Per cui basterebbe aprire il microcosmo per destabilizzare quel fascino. Perché di deterrente al suo interno ce n’è, come in ogni viscera. Su tutto la guerra, ove il nemico ha il tuo stesso volto. Ma anche l’avvelenamento dell’uomo, sintetizzato nell’avvelenamento della terra con i rifiuti tossici del nord-est. E c’è poi il tumore del male, la storia di due ragazzi che prendono ad emulare il Toni Montana di Scarface. Sono il tumore del male appunto, il bene paradossalmente, e per l’ordine e la salute del male vanno estirpati.
Si tratta di un film in cui ogni voce canta la stessa farsa. Corale, si direbbe. Un Magnolia secco. Con le espressioni gergali, con i volti dei non professionisti a loro agio nel posto e nelle voci. Ed è questa la forza realistica dell’opera, questo neo-pasolinismo che ha concorso a dare la forma guappo a coloro che in questi luoghi hanno riconoscibilmente quella forma.
In difetto di tutti quegli elementi che di norma gettano le basi per l’epilgo, c’è da ammettere quanto fosse difficile da chiudere il film. Ma Garrone ci riesce con una non-chiusura: gli ultimi cadaveri spariscono pur ancora sulla scena. L’ultimo macabro dettaglio non lo vedremo, ma l’essere qui è nascosto, solo la morte è manifesta – come la camorra, come un agguato. E alla bulimia di questo organismo sotterraneo non c’è salvezza. Solo la fuga.
Un’ultima considerazione. Spesso accade che negli ambienti socialmente a rischio alcuni film eccitino l’emulazione. In Campania questo è accaduto al film Il Camorrista di Tornatore. Non a caso si cita Scarface, ma anche Mario Puzo andrebbe bene. Ecco, Garrone riesce a scongiurare il rischio scarnificando gli elementi patetici e romantici che fanno la fortuna commerciale dei film sulla mala. Questo film non vuole piacere affatto, perché non rassicura sulla presenza di forme di coscienza nei malavitosi: qui i cattivi sono solo cattivi, e quasi tutti i buoni diventano cattivi. È una rasoiata.
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