Ida

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Ida Valutazione 4 stelle su cinque

di catcarlo


Feedback: 13499 | altri commenti e recensioni di catcarlo
mercoledì 26 marzo 2014

In un mondo dai gusti ciclici come quello della musica rock è capitato più volte che alcuni artisti si rifacessero a sonorità di un periodo precedente e vi applicassero una tale dedizione da essere pari (o anche meglio) rispetto agli originali: negli anni Ottanta, i Chesterfield Kings furono tra i migliori fra coloro che riportarono in vita – anche negli aspetti esteriori – il garage-rock di due decenni prima e, ai giorni nostri, uno come Jonathan Wilson dà l’impressione di essere in ritardo di almeno una trentina d’anni sul giusto momento storico. A considerazioni analoghe mi ha portato la visione del nuovo film del polacco Pawlikowski: sarà l’ambientazione nei primi anni Sessanta, sarà la fotografia in bianco e nero o magari il vecchio stile evocato dal formato ‘quadrato’, ma l’impressione è quella di trovarsi davanti a una pellicola che sta in un luogo ideale a mezza via tra la nouvelle vague e il primo Polanski, senza dimenticare l’immancabile tocco bergmaniano (non lascia spazio a dubbio alcuno l'inquadratura del mattino dopo la notte d'amore tra Ida e il sassofonista che la inizia, tra le altre cose, a Coltrane). L’eccesso di calligrafismo, in effetti, lascia a volte perplessi, ma la maniera è lavorata con perizia e suona bene assieme alla materia raccontata. Con un’asciuttezza ammirevole, in soli ottanta minuti contrassegnati da dialoghi essenziali e, soprattutto, significativi silenzi, il regista polacco narra una storia semplice che però tocca temi di notevole consistenza che vanno dal rapporto tra religione e vita quotidiana alla responsabilità personale di fronte alla storia (con la minuscola, ma anche con la maiuscola), con sullo sfondo l’oppressione del regime. Tutti argomenti che potrebbero far pensare a chissà quale pesantezza, invece Pawlikowski e la sua co-sceneggiatrice Rebecca Lenkiewicz procedono per accenni, lasciando allo spettatore il compito di trarre le conseguenze. Così può scorrere incantevole il racconto di Ida che, prima di pronunciare i voti, viene spedita nel mondo da una madre superiora dalle vedute insospettabilmente larghe. La ragazza viene ospitata dalla zia Olga, giudice del tribunale del popolo e donna disillusa dalla vita che cerca l’oblio tra alcool e uomini raccattati al bar. E’ lei a svelare a Ida le sue origini ebree, figlia salvata per miracolo di una coppia uccisa durante l’occupazione nazista: il viaggio che ne svela tomba e assassino rivela alla giovane la sua storia e a Olga le radici della sua angoscia, però solo la prima riuscirà ad affrontare il faccia a faccia con la realtà (e potrà decidere con cognizione di causa sul proprio futuro). E’ fin troppo ovvia la considerazione che, per la riuscita di una pellicola siffatta, sia di fondamentale importanza l’interpretazione, con le due attrici che si adattano al meglio alle esigenze del regista: il bel viso irregolare di Agata Kulesza restituisce con efficacia la psicologia tormentata di Olga, mentre la sua omonima Trzebuchowska riesce a rappresentare lo sguardo via via meno innocente di Ida sul mondo. Non stupisce, allora, che questo film sia tanto piaciuto a Alexander Payne, sia per lo scavo sui personaggi nella loro quotidianità, sia per la brillante rappresentazione degli ambienti e, in modo particolare, della natura. Se i primi sono spartani con l’eccezione della borghese casa di Olga, zia e nipote percorrono le strade bianche – dove, a un certo punto, passa anche una Seicento – che corrono tra gli alberi in una Polonia ancora rurale e quasi disabitata: il campo lunghissimo che inquadra le due donne e Feliks che camminano verso la tomba dei genitori trasforma i personaggi in minuscole figurette all’interno di una campagna in infinite tonalità di grigio (la fotografia è di Ryszard Lenczewski e Lukasz Zal). Da notare che l’utilitaria di cui sopra non è l’unico tocco d’Italia: il gruppo che incrocia la sua strada con quella delle protagoniste ha un repertorio d’epoca perlopiù tradotto in polacco (compresa ‘Love in Portofino’ di Buscaglione), ma ‘24mila baci’ è rimasta in lingua originale.

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delcastillo mercoledì 12 novembre 2014
non basta il bianco e nero a rievocare il dramma
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Non condivido il coro di elogi della critica e degli spettatori. Il film è patinato. Patinato in bianco e nero ma pur sempre patinato. Il racconto è lento non coinvolge se non chi vuole lasciarsi coinvolgere. Te ne accorgi perché é prevedibile lo svolgimento della trama. Certo, il regista vorrebbe essere drammatico, ma gli riesce solo di fare sfoggio di tecnica raffinata cinematografica per strizzare l'occhio a quelli del mestiere. Le due protagoniste Ida e la zia restano due figure tra loro estranee fino alla fine ed il loro stare insieme non si traduce in contrapposizione drammatica. Non genera curiosità o partecipazione. Laddove, come in questo film, non si genera dramma il racconto diventa noioso malgrado il bianco e nero, la fotografia e i richiami storici alle note grandi tragedie del secolo scorso.

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