Ida

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La ricerca di un’identità individuale e collettiva Valutazione 4 stelle su cinque

di Eugenio


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venerdì 2 maggio 2014

Polonia comunista, inizi anni’60. Istantanea: primo piano di un convento. Si celebra una funzione religiosa. L’attenzione dello spettatore è rivolta a una giovane suora, Anna, dalle mosse impacciate,timida, insicura, credente e rigida nella sua fermezza ecclesiastica. Esterno: quartieri popolari e in lontananza l’ambiente perbenista della borghesia che ha sfruttato il vento del regime per arricchirsi alle spalle di una popolazione sempre più povera e indigente. Emblema dell’ostentazione di benessere è Wanda elitaria di regime, magistrato, amante dei piaceri mondani, atea, segnata da ferite dell’anima, opulentemente sola, sanguinaria nelle sentenze, vibrante come luce di candela spezzata da un forte vento. Wanda incontra Anna o meglio la ritrova dopo tanti anni e la pone dinanzi a una sconvolgente verità che riguarda il passato della novella suora: il suo vero nome, Ida ma soprattutto la natura ebraica della giovane donna abbandonata in fasce dinanzi al convento da genitori perseguitati dal nazismo. Convinta di poter riparare una vita di meschinità e nefandezze con un favore al mondo, Wanda parte con Ida nel tentativo di trovare un destinatario a quella lettera di morte composta da una tomba ignota, meta ultima della peregrinazione. La strada, il viaggio lungo i binari di due esistenze che nulla sembrano spartire, diviene occasione per un dialogo sulla fede in senso lato, sulla difficile natura di servo di Dio,riflettendo sui mali osceni dell’umanità dettati da folli rappresaglie e dai torbidi recessi della natura umana, vittima e carnefice, labile rappresentante di un mondo che ha fatto dell’apparenza e del lassismo il suo punto di forza. L’incontro con un musicista autostoppista diretto nella stessa cittadina dove Wanda è convinta di trovare uno degli artefici della morte della sorella e del genero, costituisce il pretesto scelto dal regista per lo scontro prima dialettico/comportamentale poi sociale tra zia e nipote, tra libero arbitrio e piacere dei sensi, tra vita carnale e esistenza da clausura. Impiegando un bianco e nero essenziale che fa dei primi piani e dei silenzi tra le due donne uno dei punti di forza della pellicola, Pawlikowski usa la lezione di Kieslowski con perizia realizzando un “mini” decalogo on the road preciso e tagliente. Il paesaggio, metafisico e scarno, è complice del mutamento e della crisi spirituale di Ida, della carenza di significato di un Dio “panteista” violento, quasi assente e indifferente dinanzi ai suoi figli in agonia. Ma,d’altro canto, può una vita apparentemente normale con casa e famiglia, cancellare un cammino di redenzione iniziato tanti anni prima? Può la fede piegarsi a esigenze terrene? Pawlikowski fornisce attraverso la figura della suora, una possibile interpretazione rievocando un periodo dolorosissimo per la Polonia, l’invasione e la strage nazista, senza mai parlarne direttamente ma accentuando, al contrario, la forte componente intimista delle due confuse donne dall’esistenza oramai irrimediabilmente spezzata, con gli occhi rivolti a un mondo cui non appartengono più. Dagli abissi dell’indolenza alle pieghe remote degli incubi della ragione, Ida ricorda alcune pellicole bergmaniane per il complicato giro di attese, il tormento interiore dei personaggi ma soprattutto per il lucido quanto drammatico apologo di due incroci di solitudine. Il male più terribile che ciascun incapace di vita conosce molto bene.

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