A Dangerous Method |
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Un film di David Cronenberg.
Con Michael Fassbender, Keira Knightley, Viggo Mortensen, Vincent Cassel, Andrea Magro, Clemens Giebel, Franziska Arndt, Katharina Palm, Christian Serritiello.
continua»
Drammatico,
Ratings: Kids+16,
durata 93 min.
- Gran Bretagna, Germania, Canada 2011.
- Bim Distribuzione
uscita venerdì 30 settembre 2011.
MYMONETRO
A Dangerous Method ![]() ![]() ![]() ![]() ![]() |
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Esemplare documento di cinema d'autore europeo.
di Great StevenFeedback: 70023 | altri commenti e recensioni di Great Steven |
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lunedì 27 luglio 2015 | |||||||||||||||||||||||||||||||||||||
A DANGEROUS METHOD (CAN/GB/GERM/SVIZZ, 2011) diretto da DAVID CRONENBERG. Interpretato da MICHAEL FASSBENDER, VIGGO MORTENSEN, KEIRA KNIGHTLEY, VINCENT CASSEL, SARAH GADON, KATHARINA PALM, CHRISTIAN SERRITIELLO
La storia copre un arco di tempo che va dal 1905 al 1912, ed è interamente ambientata nell’Europa continentale, soprattutto nella Svizzera della belle époque dove nasce il rapporto triangolare fra tre personalità alla ricerca di un’identità sociale, professionale e morale: il fondatore della psicoanalisi Sigmund Freud, il giovane medico-psicologo Carl Gustav Jung e l’aspirante psichiatra Sabina Spielrein, dapprima sofferente di una grave nevrosi e poi seriamente impegnata negli studi universitari. Da notare che è proprio lei a causare l’avvicinamento di Jung a Freud, da lui considerato come un innegabile maestro e una fonte ricchissima di ispirazione, nonostante le sostanziali differenze di pensiero in merito alla veridicità delle fondamenta di una disciplina che in quel periodo stava debuttando nella mentalità degli scienziati più colti e curiosi. Cronenberg decide di ritrarre gli aspetti più mutevoli e contradditori di tre personaggi sicuramente discutibili dal punto di vista della ricerca forsennata di un significato esistenziale, ma la cui integrità e importanza nello sviluppo di teorie solidamente costruite, nonché di cambiamenti profondamente innovativi, non vengono mai poste sotto un interrogativo che rischierebbe dal canto suo di provocare infruttuose forzature. Il film, perfettamente riuscito anche analizzandolo secondo le prospettive più algide e rigorose, rappresenta pure una riflessione meditabonda ma pur sempre accesa sul mestiere dello psicoanalista: pieno di rischi, pericolosamente in bilico fra decisioni che potrebbero esser suscettibili di danneggiare i pazienti, continuamente ambivalente e non privo di coinvolgimenti emotivi destabilizzanti, come quello in cui Jung (un eccellente Fassbender, più controllato e introverso del solito) cade accettando di intessere una relazione sentimentale, a tratti morbosa, con colei che lo distrae dalla moglie fedele e che finisce per affezionarsi a lui sia come un compagno amoroso che come un mentore mediante le traversie di una vita che è capace soltanto di innescare malattie mentali. La meno riuscita del terzetto è probabilmente la Spielrein della Knightley, per via di qualche insistente spinta di troppo sul pedale della redenzione psicologica attraverso una love story che racchiude in sé elementi masochistici di dolore e perdizione, mentre il Freud di Montersen spicca, oltre che per un’aderenza fisica che evita accuratamente la caricatura, per un approccio assai pragmatico e severo al metodo analitico con cui l’esperto per antonomasia di un settore così complesso e sfaccettato opera in un ambiente che è aperto con costanza agli scivoloni, alle paure e alle incertezze. Il regista non manca di inserire le rispettive fragilità nella crescita di tre personalità apparentemente diversissime e in contrasto fra loro, ma in realtà piuttosto adiacenti se le si esamina prendendo in considerazione un aspetto piuttosto ricorrente: il bisogno irrefrenabile e spasmodico di dare un senso a ciò che si vive e al materiale (non solamente clinico) su cui si lavora con accanita dedizione e impegno inappuntabile. E poi abbiamo finalmente a che fare con un esempio di co-produzione fra case cinematografiche di nazionalità diverse che riesce, estromettendo le onnipresenti major statunitensi, a confezionare un prodotto appetibile anche per il pubblico che non s’intende dell’argomento (la psicoanalisi e tutti i suoi correlati) attorno a cui ruota con un dispiegamento di mezzi davvero impressionante e tutt’altro che ampolloso. C’è anche spazio per Otto Gross (un bizzarro ma efficace Cassel), curiosissimo personaggio a metà strada fra il trasandato bohemién e il genio incompreso che gioca a comportarsi da sessuomane mentre persegue un suo personale modo di vivere basato interamente sul soddisfacimento delle pulsioni più immediate e sul travolgimento emozionale spalmato a bella posta nel lavoro. Presentato al Festival di Venezia 2011 e ingiustamente privato di un riconoscimento: con un’opera così raffinata i cui inni di sincerità gridano a squarciagola, si avrebbe avuto una manifestazione cinematografica con uno stampo in più di creatività organica.
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