Nero ha senza dubbio qualità rare nel cinema italiano: osa nelle inquadrature, utilizza movimenti di macchina coraggiosi e onirici, utilizza bene la fotografia. Ispirandosi al Linch di "Empire Island" e di "Strade perdute" il regista riesce anche a costruire un'interessante disquisizione estetica sul cinema, sul ruolo di sceneggiatura, recitazione e regia, ma il problema è un altro.
Più che di "Rabbia" trattasi di un misto di rancore e depressione, reso strano dal fatto che il film che nessun produttore vuole finanziare e di cui si parla sfruttando un logoro metacinema tanto caro alla critica, esiste (e lo dobbiamo subire con una presunzione sconcertante), ed è stato prodotto nonché ben distrbuito.
Non bastano gli accattivanti piani-sequenza iniziali e le interessanti trovate tipiche della videoarte (il quadro in movimento di Rembrant) o le spiazzanti situazioni grottesche di cui il fim è disseminato per limitare il fastidio moralistico che si prova nell'apprendere che solo questa è "arte pura", che "solo 4 su 100 possono coglierla" e che non esiste alternativa tra arte essenziale e commerciale. Le ottime interpretazioni in luoghi cameo di attori veri, del calibro di Franco Nero (nessuna parentela con il regista) e Arnoldo Foà non fanno altro che scavare un solco tra quello che “La rabbia” poteva essere e quello per cui si rivela in realtà: uno sfacciato esercizio di autocompiacimento formale e intellettuale.
Un vero peccato, perché Louis Nero di doti artistiche ne avrebbe, e tante, se solo si spogliasse di quel pesante carico di vittimismo autolesionista.
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