Natalia Aspesi
La Repubblica
Nell'inquieta Parigi ante-prima guerra mondiale, una coppia di coniugi vive apparentemente felice, nell’opulenza della sua bella casa tutta marmi e velluti. Sono sposati da dieci anni, non hanno figli, le loro cene del giovedì sono celebri e riempiono, in un clima proustiano, le loro sale di intellettuali e mondani, tra chiacchiere, pettegolezzi, dispute politiche, arguzie e champagne.
Messieur Hervey, che ha il volto scabroso di Pascal Greggory, ama la bellezza. l’intelligenza, la frivolezza, la classe di sua moglie Gabrielle, Isabelle Huppert che sempre, in qualsiasi film riempie lo schermo con la sua grazia dura e malinconica, appena sfumata dalla giovìnezza perduta, con quegli occhi chiari, quella carnagione cerea tempestata di efelidi, quel corpicino quasi consumato, quella violenza trattenuta che anima la sua compostezza, quel viso immobile su cui i sentimenti, i pensieri, le emozioni, si raggelano e si infiammano. Una sera il marito torna nella sua bella dimora, soddisfatto come sempre, ma la signora non è ancora rientrata, sussurra inquieta una cameriera: ha lasciato un biglietto: se ne è andata, senza spiegazioni.
Per lui è il crollo di ogni certezza, un’offesa all’ordine che ha governato la sua vita, un inaudito gesto contro le leggi della buona società e del matrimonio. Poco dopo però. come un’ombra lenta. velata sotto un grande cappello, la signora ritorna. Non sa perché. E davanti alla disperazione del marito gli dice soltanto: «Se avessi saputo che mi amavate, non sarei tornata». Inizia un feroce duello verbale tra due persone che, ogni passione spenta, hanno vissuto di convenzioni e silenzi, senza mai rivelarsi desideri o vuoti: lui, come tanti mariti, era certo che lei fosse felice, lei ha nascosto la sua inquietudine dietro le formalità e i sorrisi. Poi è bastato un uomo qualunque, senza fascino e forse volgare, “viscido” dice il marito, a ridarle il senso dell’attesa e del desiderio, a restituinle un corpo che aveva dimenticato. Attorno a toro si muove la scia muta e invisibile della servitù, che accudisce i loro corpi negletti, vestendoli e svestendoli, con quei gesti intimì di cui la ricchezza li ha espropriati.
La crudeltà di Gabrielle scende nel fondo della loro ipocrisia, della loro lontananza, usa parole spietate, rivela le sensazioni della passione con l’altro, il disgusto per il marito. Poi gli si offre, come fosse una sfida e una umiliazione, il piccolo corpo denudato, tra sete e merletti. Patrice Chéreau, regista dì cinema, teatro e opera (inaugurerà la stagione scaligera 2007-8 con Tristano e Isotta), si è ispirato a un racconto di Conrad, Il ritorno, per costruire un dramma di coppia eterno,
quello della fine del desiderio e dell’intimita, della malinconia e del rancore, che continuano a tener unite, per convenienza, necessità, paure, 2 persone che hanno smesso d’amarsi. Tra interni e costumi belle époque splendidi, Gabrielle mette in scena lo sperdimento della coppia d’oggi, testimonianza, dice il regista, «d’un inferno taciuto, quel vivere per convenienza insieme inventandosi una felicità anche quando il matrimonio perde ogni luce, diventa una prigione di cui si è gettata via la chiave». Per Isabelle Huppert e la sua interpretazione indimenticabile la Mostra di Venezia ha inventato un nuovo premio, il Leone speciale all’insieme dell’opera:
quello alla miglior attrice pareva troppo poco, e in più doveva andare di rigore a un’italiana, la bella Giovanna Mezzogiorno.
Da D di Repubblica, 26 settembre 2005
di Natalia Aspesi, 26 settembre 2005