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Il soggetto noir di Richard Neely, dalla trama rocambolesca ricca di colpi di scena ad effetto, è per Chabrol soltanto un’ulteriore occasione per indagare l’essenza dei rapporti umani nella società borghese. Nel L’amico di famiglia del 1973 prese lo spunto da un fatto di cronaca nera, questa volta da un romanzo giallo, basato sul più classico dei drammi familiari,incentrato sul trio maledetto, lui, lei, l’altro, l’isso, essa e o malamente della sceneggiata napoletana, interpretati rispettivamente da Rod Steiger, Romy Schneider e Paolo Giusti.
Negli squarci che si aprono improvvisi nella monotona quotidianità, in questo caso la tranquilla vita di una coppia agiata apparentemente felice, nonostante le insoddisfazioni latenti e le reciproche insofferenze, Chabrol getta il suo sguardo, lucido e disincantato, quasi impietoso, per sondare gli abissi dell’animo di quel particolare tipo umano, appartenente alla classe dominante della ricca borghesia parassitaria, che ha come ambizione suprema il possesso del denaro, nel contesto del film, usato per dominare l’altro o visto come strumento per liberarsi dall’altro.
Chabrol predilige il noir, perché è nel delitto che quel tipo umano scopre le sue carte, getta la maschera del perbenismo conformista e mostra il suo lato ferino. Il delitto è sempre possibile, è implicito nella sua stessa filosofia di vivere e anche quando è solo immaginato, come in questo caso, svela il lordume della cattiva coscienza, il comune senso dell’impudicizia, che rende tutti condannabili, colpevoli e innocenti, a prescindere dal fatto, puramente occasionale, che si abbiano le mani sporche di sangue.
Il crimine è nelle cose stesse, è un fatto eclatante che affiora pian piano in modo inavvertito tra le pieghe di un tran tran banale, fino a debordare nel gesto tragico ed irrimediabile. Ma la tragedia borghese è sempre tragicomica, la farsa è il suo sfondo preferito. Anche quando la borghesia fa i suoi morti, il contorno è grottesco. I due poliziotti che si muovono in coppia, come un duo comico, il provinciale ed il parigino, l’intuitivo ed il razionale, il tipo grossolano e quello raffinato, ne sono la dimostrazione, così come il penalista Albert Légal, interpretato da Jean Rochefort, è, già nel nome, la parodia dell’avvocato ciarliero, l’azzeccagarbugli di provincia, cinico con la cliente e simpaticamente impertinente con il giudice.
I personaggi sono poco approfonditi dal punto di vista introspettivo. Ciò che interessa non sono le motivazioni psicologiche che muovono all’azione, date per scontate, bensì l’impatto che ha la passione, l’attrazione sessuale, come pura spinta vitalistica, sugli schemi consolidati del modus vivendi del borghese, che pone il danaro al primo posto tra i valori della vita.
La questione è se la forza degli istinti primordiali, soffocata dalla rigidità delle convenzioni, rompa quegli schemi, facendo sorgere un uomo nuovo, liberato dai condizionamenti sociali, il buon selvaggio di Rousseau, o, invece, si inserisca perfettamente negli stessi, come un treno che sembra deragliare ed invece dopo un sussulto ritorna sui binari, finendo per essere l’altra faccia di quella rapace ossessione per il danaro, che costituisce la vera essenza dei rapporti umani nella società, come nella famiglia, borghese.
Nelle sequenze finali, l’ambiguità della protagonista, che, per sincero pentimento o calcolo opportunistico, ritorna dal marito, lascia, nonostante tutto, uno spiraglio aperto ad un possibile riscatto morale.
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