La donna che canta

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Un film di Denis Villeneuve. Con Lubna Azabal, Mélissa Désormeaux-Poulin, Maxim Gaudette, Remy Girard, Abdelghafour Elaaziz.
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Titolo originale Incendies. Drammatico, durata 130 min. - Canada 2010. - Lucky Red uscita venerdì 21 gennaio 2011. MYMONETRO La donna che canta * * * - - valutazione media: 3,35 su -1 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
   
   
   

Viaggio nel passato Valutazione 4 stelle su cinque

di Omero Sala


Feedback: 2202 | altri commenti e recensioni di Omero Sala
venerdì 2 dicembre 2011

In un paese ricco, il Canada, che non ha conosciuto guerre, vive una famiglia borghese, benestante e serena di origini libanesi: Nawal, la madre, è segretaria presso un affabile notaio, i figli gemelli, Jeanne e Simon, sono perfettamente integrati nel milieu del paese nordamericano. In un trenquillo pomeriggio d’estate, in una piscina affollata, la madre ha un improvviso malore: seduta sul lettino a bordo vasca viene colpita da un violento choc e si immobilizza pietrificata. Subito soccorsa, viene ricoverata, ma non supera la crisi e muore dopo pochi giorni. Alla lettura del testamento i gemelli vengono messi a conoscenza di avere in Libano un terzo fratello e un padre. La madre vuole che i due ragazzi partano per la loro terra d’origine (della quale non conoscono nemmeno la lingua), che scovino il padre (creduto morto) ed il fratello (che non sapevano di avere), e che consegnino loro due lettere. Il film racconta questo viaggio e questa faticosissima ricerca. E intreccia questa discesa agli inferi, questa anabasi con delle analessi che evocano e ricostruiscono, in una serie di tesissimi flashback, la terribile biografia della madre e la drammatica storia di un paese sconvolto da una sanguinosa guerra civile. Le ricerche di Jeanne e le peripezie della madre sono le tracce parallele e asincrone di due percorsi narrativi che ricostruiscono una storia sepolta, un’epopea intricata che ricompone radici aggrovigliate e inimmaginabili verità. Una storia che ha la tremenda complessità delle tragedie greche. Negare il passato violento e tragico e seppellirne la memoria aiuta a sopravvivere; ma la memoria trova sempre il modo di presentare il conto: e di fronte alla orribile verità, c’è chi crolla e muore, chi si lascia annientare per sopravvivere squarciato dai rimorsi e chi invece trova il modo di capire e attraversare il dolore, di crescere e maturare, di ricostruire equilibri nuovi, ritrovare emozioni forti, rintracciare il senso di un legame e la dimensione di un affetto. Il film non dà tregua, non percorre scorciatoie, non risparmia nulla, non ammette semplificazioni: è spietato come la cupa storia che racconta, ma nello stesso tempo è pietoso. Il regista non cerca facili effetti, prende una misurata distanza e non concede nulla alla propensione per il sadismo e la truculenza. Guarda alla sofferenza attraverso gli occhi di Nawal e osserva con uguale orrore la ferocia dei cristiani e quella dei mussulmani, descrive con atroce distacco e infinita desolazione la spietatezza di ogni rappresaglia e l’incomprensibile disumanità di tutti gli aguzzini, non parteggia con nessuno, non si schiera. Non condannando nessuno, stigmatizza con maggior efficacia l’empietà della violenza e l’assurdità devastante dell’odio, la disperata brutalità delle fazioni e la triste cecità degli individui. Il montaggio ad incastro è articolato e complesso, ma nonostante i coup de théâtre ed i frequenti flash back quasi indistinguibili dalla sequenze narrative, non presenta cali di tensione. L’ambientazione si colloca fra lo squallore dell’anonima periferia industriale di una fredda città canadese e la desolazione di città mediorientali sventrate dalla guerra, devastate e circondate da aridi paesaggi cotti dal sole. L’angosciosa vicenda è sottolineata in alcuni passaggi dallo struggente sottofondo musicale dei Radiohead che pare composto su misura. Il canto della “donna che canta” per non ascoltare la sofferenza e per sottomettersi è di un’angosciante dissonanza.

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