The Gentlemen

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Un film di Guy Ritchie. Con Henry Golding, Kate Beckinsale, Matthew McConaughey, Hugh Grant, Jeremy Strong.
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Azione, Ratings: Kids+13, durata 113 min. - USA 2020. MYMONETRO The Gentlemen * * 1/2 - - valutazione media: 2,90 su -1 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
   
   
   

Guy Ritchie torna nel suo ambiente ideale Valutazione 3 stelle su cinque

di Felicity


Feedback: 70827 | altri commenti e recensioni di Felicity
mercoledì 17 marzo 2021

In The Gentlemen ci sono diversi piani di narrazione che vengono portati avanti grazie a un montaggio ipercinetico frenetico, che non fa respirare – o almeno solo quanto basta per star dietro agli avvenimenti. L’esercizio di stile che non nasce con lo scopo di portare originalità a livello di struttura filmica o cambiamento a livello narrativo; anzi, Ritchie riesce a riproporre qualcosa che i suoi fan già conoscono bene, apportando piccole migliorie e trasformazioni al racconto conosciuto e rimarcandone pure la classicità, disseminando per tutto il film significanti momenti di metacinema. È tramite la storia di Fletcher che man mano si vengono a conoscere i fatti. È qui che sta il ricatto fatto a Ray: raccontare questa verità (l’intero film) sotto forma di sceneggiatura e venderla a una casa cinematografica oppure oscurare tutta la storia e farsi pagare. Da quest’incontro inizia l’intero evolversi dell’opera, perché il racconto di Grant è praticamente l’intero film di Ritchie; o in altre parole, il Grant sceneggiatore è Ritchie stesso – un personaggio che ama il 35mm ma trova noioso La conversazione di Coppola. Per questo The Gentlemen è prima di tutto una riflessione sul percorso narrativo al cinema, dove vengono esposte tutte le scelte di racconto possibili, in cui tutto è volto a mostrare la magia della narrazione e del cinema – in particolare del suo, liberando ogni istinto che prima era sopito e sfidando l’atmosfera attuale dominata dal politically correct, non astenendosi dal fare battute a sfondo razziale. Non a caso viene spesso ribadito nello stesso film che è tutto un “cinematograficamente parlando“: non c’è realismo da ricercare, è finzione, divertimento, un gioco narrativo. Fletcher è un narratore, contento di esserlo, compiaciuto da stesso e dalla sua funzione – proprio come il regista, egocentrico, felice del suo ruolo di sceneggiatore, divertito dal manipolarlo per prendere in giro il pubblico, cercando di sorprendere il più possibile con la solita esagerazione, con trovate trash e pulp che spesso richiamano il mondo fumettistico, gestendo e articolando tutto il materiale narrativo senza mai cadere nel ridicolo.
Dai personaggi grotteschi di un mondo criminale alla minuziosa ricerca della colonna sonora, che serve quasi come spiegazione o risposta a qualsiasi cosa accade sullo schermo; dall’umorismo scorretto alla satira sociale e ai combattimenti corpo a corpo, dagli stereotipi ed espedienti narrativi del genere che sono abusati al montaggio scalmanato; dai patch-work di personaggi di ogni genere all’uso del voice-over per descriverli, anche se qui non è proprio così over. Ci sono tutti gli elementi riconoscibili del primo cinema di Ritchie, tutti quegli ingredienti che hanno creato un vero e proprio sottogenere, con un mondo criminale che oggi è stato esteso: basti pensare ai protagonisti, che da rozzi abitanti dei sobborghi ora vivono ai piani alti della società londinese contemporanea, ma con un maggiore controllo della struttura di racconto e gestione del montaggio, che diventano meno confusionari e più organizzati.
Guy Ritchie torna dunque a dirigere un film ove può esprimere tutta la sua libertà e capacità artistica, riproponendo il filone gangster movie ironico-grottesco che aveva abbandonato e ripartendo proprio da dove l’aveva lasciato dai tempi di Snatch e Lock&Stock.
Il regista inglese torna nel suo ambiente, lo manipola, ci gioca e lo sazia di dettagli, rimettendo insieme un mosaico policromo di personaggi di ogni etnia, nazionalità, quartiere o religione; personaggi che sono pregni di quella caratterizzazione curata ma racchiusa nell’idea del “quanto basta sapere per far sì che possa esistere la scena”. Ed è con questo che vince Ritchie: con la vasta gamma di characters originali e sopra le righe che fanno di ogni film un cult, grazie anche alla scelta del cast, sempre a cinque stelle, riuscendo a trasformare Hugh Grant in un villain credibile all’interno di un voluto ambiente dalle sfumature surreali.

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