UNA SCONFINATA GIOVINEZZA (IT, 2010) diretto da PUPI AVATI. Interpretato da FABRIZIO BENTIVOGLIO, FRANCESCA NERI, SERENA GRANDI, GIANNI CAVINA, BRIAN FENZI, LINO CAPOLICCHIO, CESARE CREMONINI, RICCARDO LUCCHESE, MANUELA MORABITO, ERIKA BLANC, ISABELLE ADRIANI, VINCENZO CROCITTI, DAMIANO RUSSO, OSVALDO RUGGIERI
Lino Settembre, esperto giornalista sportivo e commentatore Rai per Il Messaggero, e sua moglie Chicca, professoressa universitaria di lingue medievali, sono una coppia di mezz’età felicemente sposata che conduce una vita serena lontana da serie difficoltà. Il loro unico rammarico è il non aver avuto una prole. Quando Lino comincia ad accusare banali problemi di memoria, lui e la consorte decidono di riderci su, ma la situazione si fa sempre più penosa e imbarazzante, finché, dopo una visita presso un neurologo, si scopre che Lino è nella fase iniziale del morbo di Alzheimer. Chicca sceglie di tacergli la sua situazione (che purtroppo è destinata ad aggravarsi) per non farlo soffrire, ma deve scontrarsi col parere contrario dei suoi famigliari d’origine – soprattutto col fratello maggiore Emilio, primario ospedaliero, che non ha mai visto di buon occhio il cognato – che preferirebbero che lei lo ricoverasse in un istituto. Vedendo che la malattia ha drammaticamente gravato sulla loro vita coniugale, in un primo momento Chicca si rassegna ad affidarlo a due badanti straniere, ma poi, mossa a pietà dai comportamenti sempre più bisognosi ed infantili del marito che sta regredendo ad uno stato mentale da bambino, torna ad occuparsi di lui con crescente affetto. Dopo Gli amici del bar Margherita, tessitura non troppo convincente di una serie di ricordi dell’adolescenza del regista, Una sconfinata giovinezza appare subito tenuta insieme da un’idea narrativa molto più salda e forte, una storia come poche ne racconta l’odierno cinema italiano poiché intesa nel senso ampio del termine. Avati non è di sicuro il primo ad aver esplorato il tema umanissimo della trasformazione dell’amore coniugale ad amore filiale: la letteratura lo ha affrontato in ogni epoca, e il cinema ha fatto a suo modo altrettanto quando uscì Il curioso caso di Benjamin Button (2008), ma ora il regista bolognese dà una versione nostrana del suo pensiero in merito utilizzando il suo speciale linguaggio di osservatore decentrato. Peccato che le scelte di regia non sostengano sempre la dolorosa poesia della trama: le musiche enfatiche, troppo da drammone, non aiutano, e il seppia delle immagini che mostrano Lino bambino (in assoluto la parte più magica del film) intento a scoprire il mondo nelle sue invereconde passioni (il cane Perché, l’incidente d’auto mortale, gli straordinari fratelli Leo e Nerio, la vicenda del brillante che la zia intende ritrovare ad ogni costo) rappresenta più il ricordo di Avati relativo alla sua infanzia che non un tentativo di tradurre con la mano ciò che la mente filmica ha elaborato per condividerlo con lo spettatore. Malgrado ciò, però, la pellicola ha una potenza emotiva irresistibile e tocca corde profonde, descrivendo come il lascito dell’infanzia torni per riappropriarsi dei sentimenti di una persona quando la sua vita volge al tramonto (o in autunno, come il cognome del protagonista sembra suggerire). La sceneggiatura si concentra proprio sulla sorte bizzarra dell’uomo che, giunto a un certo punto del suo cammino, ha da fare i conti col mistero accattivante del suo passato più remoto. Così le corse dei ciclisti al Giro e al Tour (l’apparizione di Gastone Nencini in televisione dopo una vittoria importante ad una tappa) e le rimembranze di un amico che fingeva di saper resuscitare i morti tornano con prepotenza a reclamare un’importanza, spazzando via le esperienze e il materiale che l’essere umano ha finora saputo costruirsi. Nessuno poteva interpretare un personaggio così sensibile meglio di Bentivoglio, con la sua aria di triste saccenteria: ci regala un protagonista formidabile sicuro del fatto suo oltre ogni ragionevolezza, ma anche la compartecipazione della Neri al suo fianco rivela una donna corazzata perspicacemente contro il dolore che, nonostante una rinuncia di cui si pente, respinge aiuti indesiderati a costo di nascondere al compagno d’una vita una verità terrificante. A tal proposito, la sequenza del pestaggio casalingo è eloquente nel mostrare come la rabbia per un deperimento precoce dovuto alla demenza senile sia esemplificativa d’una reazione esplosiva. Sono graditi anche i ritorni di Cavina e Capolicchio che, coi loro ruoli ambigui e le loro ombre, illuminano per contrasto l’innocenza di Bentivoglio e gli creano attorno un contorno di uomini che lo sostengano nella continuazione del suo sogno delirante mediante la sua esclusione dalla realtà. E S. Grandi punta su una gentilezza raffinata e placida per intingere all’acqua di rose una zia squisitamente materna. Avati propone l’esistenza umana come un film: quando s’arriva alla fine, si riguarda dal principio.
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