
L'impeachment di Rousseff e l'epurazione di Luna nel documentario candidato all'Oscar. Su Netflix.
di Raffaella Giancristofaro
Aprile 2018, San Paolo: acclamato dalla base elettorale per le sue politiche sociali e le origini di sindacalista e metalmeccanico, Luíz Inacio Lula da Silva (Lula), già presidente del Brasile dal 2003 al 2011 (dopo tre tentativi falliti, nel 1989, '94 e '98) nonostante le proteste dei suoi sostenitori deve consegnarsi alla giustizia per effetto di una condanna in primo grado in seguito all'inchiesta sull'operazione "Lava Jato", "autolavaggio", nel senso di corruzione tramite tangenti della compagnia petrolifera nazionale Petrobras, e di riciclaggio. Uno scandalo che ha travolto non solo il suo partito (PT, Partido dos Trabalhadores, dei lavoratori, fondato, anche da Lula, nel 1980), ma anche la parte avversaria, ovvero esponenti del PSDB (Partito della Social Democrazia Brasiliana, nato nel 1988). E che continua, nonostante la scarcerazione di Lula a film finito, a perseguitare l'ex presidente per vie penali.
È un'emergenza nazionale, l'ultimo atto di una strategia articolata dalla destra parlamentare, iniziata con l'impeachment di Dilma Rousseff (succeduta a Lula) intrapreso sulla base di presunti brogli elettorali e accuse sproporzionate che rievocano il sinistro termine di "golpe".
Ma per la regista si tratta anche di una questione familiare, di un'alternanza tra una generazione che ha inseguito la ricchezza e un'altra che ha lottato per la libertà di tutti contro il capitale.