cinelady
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lunedì 1 febbraio 2021
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una passione che manca di calore
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Dopo aver trovato Ammonite nella lista dei potenziali concorrenti ai prossimi Oscar e aver scoperto che il regista è Francis Lee, autore di God’s Own Country, a mio parere uno dei film LGBTQ+ più belli degli ultimi anni, le mie aspettative erano piuttosto alte, forse troppo per un lavoro che tutto sommato è molto semplice e poco ambizioso. Non è un brutto film, questo sicuramente no, ma perde molto se confrontato a soggetti simili. Il paragone forse più immediato è con Ritratto della giovane in fiamme di Céline Sciamma, uscito giusto qualche tempo fa, rispetto al quale Ammonite non riesce mai a trovare una propria cifra stilistica che gli permetta di aggiungere qualcosa di diverso al cinema in costume o a quello LGBTQ+, finendo appunto per risultare un ibrido tra l’opera prima di Lee e il film di Sciamma.
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Dopo aver trovato Ammonite nella lista dei potenziali concorrenti ai prossimi Oscar e aver scoperto che il regista è Francis Lee, autore di God’s Own Country, a mio parere uno dei film LGBTQ+ più belli degli ultimi anni, le mie aspettative erano piuttosto alte, forse troppo per un lavoro che tutto sommato è molto semplice e poco ambizioso. Non è un brutto film, questo sicuramente no, ma perde molto se confrontato a soggetti simili. Il paragone forse più immediato è con Ritratto della giovane in fiamme di Céline Sciamma, uscito giusto qualche tempo fa, rispetto al quale Ammonite non riesce mai a trovare una propria cifra stilistica che gli permetta di aggiungere qualcosa di diverso al cinema in costume o a quello LGBTQ+, finendo appunto per risultare un ibrido tra l’opera prima di Lee e il film di Sciamma.
La formula iniziale è simile a quella di God’s Own Country: una protagonista solitaria, un luogo desolato, un duro lavoro manuale e un genitore malato a carico. Insomma, una vita faticosa che richiede un impegno costante e non lascia il tempo per dedicarsi a una relazione amorosa. In Ammonite invece della campagna abbiamo il mare e la spiaggia, a cui la protagonista si reca ogni giorno in cerca di fossili per i musei e conchiglie da vendere ai turisti. Un giorno nella sua vita compare per caso un’altra donna, giovane moglie insoddisfatta che ha da poco perso un figlio. Tra le due all’inizio c’è attrito per via della differenza di classe sociale, ma pian piano le reciproche resistenze lasciano spazio a un affetto e poi alla passione. Ma rispetto al film precedente, qui Lee non ci mette mai davvero il cuore, e tutti i temi che fanno da contorno alla storia sono appena accennati, mai sviscerati in profondità, a partire dall’interessante protagonista, Mary Anning, una paleontologa realmente esistita ma mai riconosciuta dalla comunità scientifica per il solo fatto di essere donna. Sappiamo che ha ereditato gli strumenti di lavoro dal padre e che effettivamente è brava a intuire dove si trovano i fossili, ma per il resto sembra continui a farlo più perché le riesce bene che per vera passione. Sappiamo anche che in passato ha già vissuto una storia d’amore saffico con l’erborista del villaggio, relazione finita male che potrebbe essere la causa della sua progressiva chiusura in sé stessa. Sono tutti elementi potenzialmente interessanti ma mai approfonditi, perché è evidente che al regista interessi soprattutto l’analogia tra i fossili di Mary, estratti dalle rocce con un duro lavoro, e il progressivo schiudersi delle due donne all’amore. Il problema è alla base, perché la relazione che nasce tra le due donne non sembra mai del tutto giustificata, complice anche la penuria di dialoghi, che lascia vari risvolti della storia non chiariti, affidati all’intuizione dello spettatore ma mai confermati. È chiaro che il regista vorrebbe lasciar parlare le immagini, effettivamente molto belle, ma in questo modo molte volte manca una giustificazione all’agire dei personaggi che rende la storia programmatica e non aiuta di certo a compensare il vacillante equilibrio narrativo. In God’s Own Country, infatti, la storia d’amore che nasce tra i due personaggi è in qualche modo cercata, e contribuisce a far maturare entrambi e a far capire loro che genere di vita vogliono vivere. Il loro arco di narrazione si risolve di conseguenza molto meglio, aiutato dal fatto che la storia è ambientata ai giorni nostri, quindi l’omosessualità non deve per forza essere vissuta in segreto, come invece accade in Ammonite, che per scelte narrative è appunto simile a Ritratto della giovane in fiamme, di cui però manca il calore. Dove, infatti, Céline Sciamma è riuscita a gestire perfettamente i giochi di sguardi delle sue protagoniste, aiutata in partenza dal rapporto artista musa che si instaura tra le due, e a creare un racconto curato nella drammaturgia e raffinato nella regia, Francis Lee rimane in superficie, accontentandosi di avere il privilegio di dirigere due celebri attrici e lasciando loro il compito di narrare una passione che però non accende mai lo schermo, rendendo il film freddo come la Lyme in cui la storia ha luogo.
Dove Ammonite poteva rifarsi è nel finale, ma proprio sul più bello la storia è lasciata in sospeso. L’inquadratura finale è chiara: tra Mary e Charlotte ci sarà sempre un fossile. Inoltre nella loro relazione c’è un forte squilibrio, perché l’amore sembra cambiare Charlotte, che diventa più forte e indipendente, ma lascia Mary più o meno immutata. Anzi, sembra che a lei non interessi una relazione duratura, soprattutto non a una relazione che la porti via dal luogo in cui abita e lavora, e sia la sola Charlotte a combattere per far resistere il loro amore alle rigide convenzioni dell’epoca. Rimane in sospeso una domanda: le due cercheranno un compromesso per vivere vicine oppure rinunceranno a tutto quello che è nato tra di loro, trasformando la loro storia in un’altra di quelle passioni proibite e passeggere?
In conclusione, dal punto di vista tecnico il film è ottimo, dalle scenografie ai costumi alla fotografia, ma per i miei gusti non basta a sopperire a una storia programmatica che, per essere una storia d’amore, non scalda mai davvero il cuore.
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alice
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lunedì 14 marzo 2022
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un amore alle pendici della jurassic coast
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All’apparenza questo film sembra raccontare l’amore tra due donne agli antipodi, che decidono di ritagliarsi un piccolo momento di felicità in un contesto sociale opprimente e stagnante, ma la reale forza portante del film è quella della relazione tra Mary Anning (Kate Winslet) e il suo lavoro.
La conferma di questa impressione è palesata nella scelta di iniziare e finire il film nello stesso luogo, davantiallo stesso fossile, che rappresenta il primo ritrovamento della protagonista. Si nota, però, che, rispetto alle prime immagini del film, le ultime sono ricche della ritrovata consapevolezza del personaggio della Winslet, non più indifferente e apparentemente fredda, ma viva anche nella sofferenza.
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All’apparenza questo film sembra raccontare l’amore tra due donne agli antipodi, che decidono di ritagliarsi un piccolo momento di felicità in un contesto sociale opprimente e stagnante, ma la reale forza portante del film è quella della relazione tra Mary Anning (Kate Winslet) e il suo lavoro.
La conferma di questa impressione è palesata nella scelta di iniziare e finire il film nello stesso luogo, davantiallo stesso fossile, che rappresenta il primo ritrovamento della protagonista. Si nota, però, che, rispetto alle prime immagini del film, le ultime sono ricche della ritrovata consapevolezza del personaggio della Winslet, non più indifferente e apparentemente fredda, ma viva anche nella sofferenza. La concreta funzione del rapporto che si instaura tra Mary Anning e Charlotte Murchison (Saoirse Ronan) è che riesce a risvegliare delle sensazioni andate perdute tra le correnti dell’Atlantico o bloccate come la vita che la protagonista trascorre a Lyme Regis.
Tutto il film è disegnato dalla sola luce naturale e la comunicazione, povera di parole, si delinea attraverso sguardi, movimenti e i suoni della natura o della quotidianità.In particolare, questi ultimi descrivono il film, determinandone il ritmo e le emozioni della protagonista, la cui forza interiore ha il suono delle onde che si infrangono contro le scogliere.
Il film sicuramente deve moltissimo alla capacità della Winslet di saper donare al suo personaggio un’energia e una tensione sottesa, decifrabili anche solo tramite i più piccoli cambiamenti di espressione. Il contatto con ciò che risulta concreto e tangibile, come la terra, i sassi, le mani della persona amata diviene un personaggio all’interno della storia, arricchendone le dinamiche. Risulta, infatti, centrale nel lavoro che svolge la Anning come paleontologa e ricercatrice e come donna che non lascia spazio ai sentimenti. La vita però, come il lavoro, ha bisogno di passione per essere alimentata, altrimenti tutto, anche l’essere a noi più caro, si trasformerebbe in frustrazione e monotonia. A volte è sufficiente un leggere tocco dei tasti di un pianoforte dimenticato per risvegliare l’amore per sé stessi.
Il problema del racconto narrato da Francis Lee risiede nel non saper rappresentare adeguatamente la trasformazione emotiva di Mary Anning e nel rinchiudere la passione alla sfera della relazione con la Murchison, preferendo far risaltare un amore proibito e non la riscoperta dei battiti di un cuore intorpidito. Questa mancanza è probabilmente dovuta a una sceneggiatura fin troppo minimale, soprattutto nella parte finale del film, che non permette una chiarificazione dei sentimenti, perdendosi in diatribe di carattere sociale, che nel resto della storia non erano quasi mai accennate. Appare quindi che la narrazione rimanga sospesa, al limite tra due sentieri che volevano essere percorsi.
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