Manta Ray |
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Un film di Phuttiphong Aroonpheng.
Con Wanlop Rungkumjad, Abhisit Hama, Rasmee Wayrana
Titolo originale Kraben Rahu.
Drammatico,
Ratings: Kids+13,
durata 105 min.
- Tailandia, Francia, Cina 2018.
- Mariposa Cinematografica
uscita giovedì 10 ottobre 2019.
MYMONETRO
Manta Ray
valutazione media:
3,31
su
-1
recensioni di critica, pubblico e dizionari.
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Fantasmagorie su identità e diversità
di Paola Zonca La Repubblica
La dedica in apertura, "al popolo Rohingya", porta un po' fuori strada. Ci si potrebbe aspettare, fermandosi alla sinossi, un film politico sull'odissea di una delle minoranze più per-seguitate al mondo, costretta a lasciare il nord della Birmania per ammassarsi nei campi profughi del Bangladesh o a tentare la fuga per mare nella vicina Thailandia, lasciandosi dietro una scia di morte. E invece Manta Ray, primo lungometraggio del videoartista e regista di Bangkok Phuttiphong Aroonpheng - vincitore della sezione Orizzonti a Venezia 2018 e da dopodomani in sala - prende sì spunto dalla tragedia dell'etnia di religione musulmana, ma sceglie di non rappresentarla realisticamente, piuttosto di trasfigurarla attraverso il linguaggio della poesia, la visionarietà, la dimensione onirica. Non è un film facile, ma affascina lo spettatore per la sua carica visiva potente e psichdelica, per la capacità di inserire nella narrazione elementi magici, soprannaturali, fantastici, che lo rendono un caleidoscopio di luci, colori, suoni. A partire dalla prima scena, ambientata in una foresta che nella notte si illumina con tante piccole palline luccicanti come quelle degli alberi di Natale: forse sono le anime di tutti coloro che sono scivolati nell'oblio, ma che ancora sprigionano energia vitale. Sta al pubblico interpretare: il cineasta semina indizi, evoca, allude, ma non spiega. E in questa molteplicità di livelli di lettura risiede il fascino dell'opera. La trama è semplice: un giovane pescatore thailandese dai capelli ossigenati trova sul litorale al confine col Myanmar un uomo gravemente ferito che non preferisce parola: forse è muto, forse non parla la stessa lingua. Il ragazzo (neanche di lui si conosce il nome) lo porta nella sua casa, lo cura, lo guarisce, lo ribattezza Thongchai, come una famosa rockstar locale. Tra i due si crea un rapporto molto stretto, intimo, tutto giocato sui silenzi, sugli sguardi, sul rapporto con l'acqua, sui lunghi lamenti che intonano assieme come note di uno strumento musicale. È l'incontro tra due solitudini (l'uno è stato abbandonato dalla moglie, l'altro è un profugo senza storia) che si fondono fin quasi a diventare un solo corpo e un solo spirito. Il salvatore però sparisce dopo aver preso il largo con la sua barca: Tongchai prende il suo posto e si lega anche alla sua compagna, inaspettatamente tornata a casa. Ma il mare restituisce, e allora sarà il Rohingya a tornare da dove era venuto, lasciandosi inghiottire dalla natura. "Manta Ray è guidato dall'immagine e dal suono. Funziona piuttosto come un'opera astratta, un pezzo di musica strumentale" ha spiegato Aroonpheng. Ecco perché vale la pena affrontare il film d'istinto, senza pretendere di capire tutto, ma abbandonandosi alle sensazioni, alle associazioni, alla bella e ipnotica colonna sonora, ai misteri. È una parabola sull'identità e sulla diversità che fa scoprire un autore promettente di un paese lontano, che deve molto alle atmosfere magiche del più noto connazionale Apichatpong Weerasethakul, Palma d'oro a Cannes 2010 per Lo zio Bonmee che si ricorda le vite precedenti, ma se ne discosta con uno stile personale. Come d-mostra la suggestiva la scena finale, dove due gigantesche mante nuotano nelle profondità dell'oceano, a significare una libertà ritrovata grazie al superamento del confine tra vita e morte, tra umano e animale.
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