Manuel” (2017) è il primo lungometraggio del regista-documentarista Dario Albertini.
Film documentaristico ed essenziale, vivo e antiretorico, realista e asciutto.
Il cinema italiano, ogni tanto, respira di prodotti come questo, dove intelligenza, buona scrittura e facce riconoscibili vanno di pari passo con giusto modo di raccontare e raccontarci una storia dell'oggi, come di ieri (neorealismo) o forse di domani. Le piccole cose, i gesti minimi, il volto, uno sguardo, qualche titubanza, errori, incontri e una madre: ciò che Manuel attraversa è il suo mondo interiore infuocato e passivo, docile e pauroso.
Un figlio (‘il figlio’ dardenniano) che si lascia trasportare dalla sua angoscia, dal suo filo flebile, dalla sua voce. dal suo cordone ombelicale per aiutare la madre, per riaverla e per farla (ri)crescere dopo il carcere. Un figlio che misura le debolezze di una donna, un figlio che, miserevolmente, consola le mancanze di una donna, un figlio che (ri)vuole i difetti-errori della sua vita.
La disidratazione delle immagini si evince dallo scarno e congruo livello di ripresa. Un difetto, sembrerebbe, invece è solo pregio, un avvicinarsi agli occhi di chi guarda con circostanza, circospezione, quasi chiedendo permesso. Forse il cinema di racconto vero sta perdendo proprio questo è si deve rinnovare , quello di chiedere allo spettatore le scuse per presentarsi prima di una proiezione. Con delicatezza e gusto minimo i due si avvicinano quasi sfiorandosi, il grande schermo e il pubblico in sala.
Memorie di un cinema non didascalico o di rifugio, fatto di concretezza, animo e problemi reali. Una vita dura quella di Manuel che ha conosciuto emarginazione sociale e abbandono, casa-famiglia e solitudine, educatrici e affetti costruiti.
Ancora di Manuel è il suo sguardo assente, quello di voler 'spegnere' con le dita le luci di notte, delle auto o forse come fossero fari naturali di piccole fiamme notturne. Un diciottenne che vuole una vita aperta, che, seduto sul ciglio di una strada o vicino ad una stazione, sta ad osservare, aspetta e spera nel ritorno della madre a casa. 'È sempre mi madre' dice più volte. ‘È quello che conta … io sono il figlio’.
Notturni interiori con dissolvenze di panorami offuscati. Quasi sempre si vede il suo volto e i suoi movimenti divincolanti e non tranquilli. Un ragazzo che frena e che si rialza, che ha coraggio non sapendo da dove gli viene. Alle domande dei servizi sociali risponde indicando quello che ha dentro. 'Ma cosa gli hai detto....?'. Ecco Manuel ripulisce se stesso e l'appartamento di 'mi madre' per poter accoglierla e donarle ciò di cui ha bisogno. Un po' di serenità e un po’ di compagnia. La sentenza e l’abbraccio restano all’unisono con un’ansia fagocitante e implosiva; l’attesa snervante sono lacrime amarissime e lo sguardo nel vuoto sopra le spalle di una donna resa inerme da un figlio. Pianti divisi e mani unite.
Un ritorno dopo una telefonata, una sniffata, un qualcosa di lontano. Una canna nel passato e un amico perso nel tempo. Il ritorno al reale e al destino che attende la madre.
Ermetico e fisico, taciturno e movente, perso e pauroso: il volto di un ragazzo che si ritrova in mezzo alla vita senza un'idea. Eppure questo ragazzo, dal ciglio di una strada, da una spinta ad un triciclo, da poche parole verso gli altri, da incontri fortuiti riesce un minimo ad andare alla giornata. Con difficoltà enormi fa cadere i suoi occhi sulla speranza di una 'famiglia'.
L'avvocato e il ragazzo, i fatti e le speranze; risponde che in questo lavoro contatti i fatti non l'on la speranza o più di essa. Far uscire la madre dal carcere è essenziale. Chiude tutto per lei.
Andrea Lattanzi (nei panni di Manuel) convince e gioca il personaggio con sottrazione di intenti. Gesti e modi mesti e passivi, sguardo lontano e fisicità che attraversa lo schermo e le strade di un ritorno a casa. Il suo camminare tra i prati incolti di una periferia perenne detta il passo tra i grandi palazzoni disadorni e vuoti. Un ‘ragazzo di vita’ che guarda il futuro con speranza mentre raggiunge il ‘litorale’ per un nuovo inizio. La ‘poesia’ può arrivare, anche, da un grigio mare e da una stagione da lenire.
Si ricorda la presenza di Renato Scarpa che in pochi attimi riesce a non farsi dimenticare.
Regia minima(le), sentita, efficace e priva del futile.
Voto: 8/10.
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