“L’Atelier” èun film interessante che però cambia registro sul finale passando da film impegnato di rappresentazione del sociale a uno psicologico.
Siamo a La Ciotat, una località di 35.000 abitanti sulla costa mediterranea vicino a Marsiglia, dove c’era un enorme cantiere navale che dava ricchezza a tutta la zona e che fu chiuso verso la fine degli anni Settanta. Dopo lunghe battaglie operaie, La Ciotat non si è ancora ripresa economicamente dopo tanti anni e oggi è prevalentemente porto turistico con officine per riparazioni navali per le unità da diporto. Al centro della zona c’è ancora un bacino di carenaggio di 200 per 60 metri.
La cittadina è famosa tra i cinéphilesanche per un’altra ragione: i fratelli Lumière immortalarono l’arrivo del treno proprio nella stazione ferroviaria di La Ciotat.
In “L’Atelier” Olivia Dejazet (interpretata da Maria Foïs) è una famosa scrittrice di gialli che tiene un atelier di scrittura con dei ragazzi locali: un gruppo multietnico e variegato.
Come spesso in questo genere di film - “La classe” dello stesso Laurent Cantet del 2008, “Monsieur Lazhar” di Philippe Falardeau del 2011, ma anche “Una volta nella vita” di Marie-Castille Mention-Schaar del 2016 - l’obiettivo è proprio quello di imparare a cooperare e a costruire in modo collettivo confrontandosi, in modo da creare un’identità collettiva al di là delle differenze. Il pretesto del film è quello di scrivere insieme un romanzo giallo che presenti quindi un omicidio e che sia ambientato proprio in quella zona.
Nel laboratorio di scrittura, naturalmente si creano delle difficoltà, dovute alle differenze culturali e religiose o a diverse opinioni politiche. Comunque a quell’età il rapporto tra giovani è sempre piuttosto delicato. Uno dei ragazzi (ben interpretato da Matthieu Lucci) si chiama Antoine Chauvin (un cognome a caso?) ed è un ragazzo solitario, introverso e scontroso che, con le sue ritrosie e fragilità, rappresenta un campione di permeabilità a slogan razzisti. Antoine è inquieto, si nasconde da tutti, forse anche da se stesso. I soli amici che riesce ad avere è un gruppetto di sbandati di estrema destra dove circola molta provocazione ed esibizione.
Anche se non c’è nessuna relazione, il personaggio di Antoine mi ha evocato quello rappresentato nel film “Cognome e nome: Lacombe Lucien”, diretto da Louis Malle nel 1974 e interpretato da Pierre Blaise, che narra le vicende di un giovanissimo contadino che diventa collaborazionista nel sud-ovest della Francia nel 1944. Il contesto storico e ambientale è molto diverso in “L’Atelier” la realtà rappresentata non è disagiata, è monotona e la radicalizzazione sembra costituire una valvola di sfogo dalla noia.
Nel nostro film Laurent Cantet sottolinea l’intrigo psicologico che diventa emergente: quello tra Olivia e Antoine, il quale provoca continuamente gli altri con posizioni violente, e perfino la tutor animatrice dell’atelier. Leggerà avanti a tutti un brano di un suo giallo accusandola di usare parole vuote senza capire fino in fondo la matrice della violenza. C’è una forte attrazione tra i due ma c’è anche repulsione.
Quest’ultima parte del film gioca molto sull’ambiguità: Olivia, lo maltratta ma poi gli chiede scusa, lo cerca, lo coinvolge in un nuovo giallo. Non si sa bene se i cerchi materiale umano per il suo nuovo romanzo o intenda realmente aiutarlo avendo compreso i suoi livelli di sofferenza?
I film di Laurent Cantet parlano di piccole storie del quotidiano; le protagoniste sono fabbriche in sciopero o scuole multiculturali nella banlieu, tutti luoghi di classi sociali meno favorite dalla sorte. Non solo ma Laurent Cantent e i suoi attori, spesso non professionisti, lavorano assieme per plasmare la sceneggiatura per rendere più veritieri i personaggi.
Con “L’Atelier” Maria Foïs ha ottenuto il Premio Cèsar 2018 per la migliore attrice, e il regista Laurent Cantet, il premio della giuria Un Certain Regard 2017.
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