sergio dal maso
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mercoledì 17 giugno 2015
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la gabbia dorata
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“De que me sirve el dinero si estoy como prisoniero dentro de esta gran nacion? Cuando me acuerdo hasta lloro, que aunque la jaula sea de oro no deja de ser prision”
“A cosa mi serve il denaro se vivo come un prigioniero in questa grande nazione? Quando ci penso piango, benché la gabbia sia d’oro non smette di essere una prigione”
La jaula de oro
La gabbia dorata citata nella canzone che ha ispirato il titolo dello splendido film di Diego Quemada-Diez è la rappresentazione simbolica dell’allucinante stato di clandestinità in cui si ritrovano i latinos che riescono a entrare illegalmente negli Stati Uniti, dopo quella “discesa agli inferi” che è il terribile viaggio attraverso il Centro America, a piedi o appollaiati sui tetti dei vagoni-merci del tren de la muerte.
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“De que me sirve el dinero si estoy como prisoniero dentro de esta gran nacion? Cuando me acuerdo hasta lloro, que aunque la jaula sea de oro no deja de ser prision”
“A cosa mi serve il denaro se vivo come un prigioniero in questa grande nazione? Quando ci penso piango, benché la gabbia sia d’oro non smette di essere una prigione”
La jaula de oro
La gabbia dorata citata nella canzone che ha ispirato il titolo dello splendido film di Diego Quemada-Diez è la rappresentazione simbolica dell’allucinante stato di clandestinità in cui si ritrovano i latinos che riescono a entrare illegalmente negli Stati Uniti, dopo quella “discesa agli inferi” che è il terribile viaggio attraverso il Centro America, a piedi o appollaiati sui tetti dei vagoni-merci del tren de la muerte. Delle migliaia di messicani, honduregni, salvadoregni e guatemaltechi, spesso giovanissimi, che partono tutti i giorni con il miraggio di una vita migliore, i pochi che riescono a oltrepassare il confine e calpestare il suolo americano, sopravvissuti al caldo torrido del deserto, alle bande di delinquenti, ai narcotraffi-canti, ai sequestri e infine scampati alle retate della polizia di frontiera, si ritrovano clandestini, senza poter essere regolarizzati né poter tornare indietro, costretti ad accettare, quando va bene, i lavori più umili, malpagati e sfruttati. Ma nella gabbia dorata la maggioranza dei migranti non ci entrerà mai, il sogno di un lavoro dignitoso, di un riscatto sociale, resterà tale.
Di questo parla il memorabile esordio del regista spagnolo Quemada-Diez, della crudele e straziante odissea che ha per protagonisti tre ragazzini guatemaltechi e un indio del Chiapas messicano. Juan, scontroso e malinconico, Sara, vestita da maschio e con il seno fasciato per non essere sequestrata, e Samuel, il più dubbioso e incerto, fuggono dalle favelas di Città del Guatemala, precisamente dalla zona 3, una delle più povere e pericolose baraccopoli del mondo. Durante il lungo cammino Samuel si arrenderà e tornerà indietro, lo sostituirà Chauk, un indio silenzioso che parla solo la lingua nativa tzotzil.
Sarà un viaggio dolorosissimo e spietato, pieno di colpi di scena e insidie, di incontri con persone malvagie ma anche solidali come i campesinos che lanciano viveri al treno in corsa o i padri missionari che li ospiteranno. Un lungo cammino che sarà anche una crescita personale. La frontiera da superare non è solo geografica, c’è anche quella del passaggio all’età adulta e della scoperta dell’amicizia, della difficile comprensione che la solidarietà è più importante dell’individualismo.
Quello che alle prime scene potrebbe apparire un documentario di denuncia pian piano si rivela un film complesso e articolato, ricco di spunti di riflessione e di poesia, oltre che di immagini e scene difficili da dimenticare.
Una regia tanto diretta quanto intensa, con un uso efficacissimo della camera a spalla, restituisce perfettamente l’autenticità della storia, il senso pieno di cinema-verità. Non c’è nessun esibizionismo nella crudeltà o nelle scene di violenza, sono talmente “vere” che spesso è sufficiente evocarle per trasmettere un senso di angoscia.
Con il passare dei minuti si crea con i giovani protagonisti un’empatia totale, un pathos in cui condividiamo sentimenti e speranze, frustrazioni e disperazione.
Quello che più colpisce è l’assoluta sincerità e l’onesta intellettuale di Quemada-Diez: ha lavorato al film per dieci lunghi anni percorrendo tre volte il viaggio con i migranti dal Guatemala fino agli Stati Uniti, raccogliendo e documentando più di cinquecento testimonianze dirette, rischiando più volte la vita, esattamente come Juan, Sara e Chauk. Per scegliere i tre formidabili protagonisti guatemaltechi ha fatto un casting con 3000 ragazzini nelle favelas di Città del Guatemala, per trovare Chauk si è inoltrato nei villaggi più sperduti del Chiapas messicano. Tutti gli episodi e i dettagli della sceneggiatura sono accaduti veramente, il regista si è solo limitato ad assemblarli in una unica storia. E’ per questo che La gabbia dorata è un pugno allo stomaco, perché capiamo subito che una ragazzina si è veramente vestita da maschio, un altro ha davvero comprato degli stivali da vaqueros, come è vero che un bambino del Chiapas ha detto al regista di voler andare negli Stati Uniti per vedere cadere la neve.
Quella neve candida come i sogni di un ragazzino indio che oppone la saggezza del silenzio e la spiritualità di una cultura millenaria alla violenza e alla barbarie del ricco occidente.
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the review from nowhere
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sabato 29 novembre 2014
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un cinema che ci restituisce l'esperienza del vero
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"La gabbia dorata" è un film del 2013, diretto da Diego Quemada-Diez, incarnato da centinaia di migranti, intensamente interpretato dai suoi giovani protagonisti, tutti attori non professionisti. Il film è una sincera testimonianza delle innumerevoli difficoltà affrontate da centinaia di migliaia di persone costrette, ogni giorno, a lasciare il proprio paese( qui siamo in America Latina) pur di raggiungere, col coraggio e la forza del desiderio di vivere, condizioni di vita sostenibili, nei grandi stati occidentali. Ogni dettaglio, dalla fotografia alla caratterizzazione psicologica di Sara, Chauk e Juan, dalla colonna sonora alla sceneggiatura, partecipa armoniosamente, grazie anche ad una regia impeccabile, alla creazione di un'opera d'arte che restituisce dignità alla Vita offesa dall'ingiustizia dell'ignoranza umana, dall'economia dei modelli matematici e crescita infinita, dalla storia riscritta dai vincitori e dall'indifferenza passiva di chi crede che consumare sia un privilegio e non un modo di prendere in giro se stessi.
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"La gabbia dorata" è un film del 2013, diretto da Diego Quemada-Diez, incarnato da centinaia di migranti, intensamente interpretato dai suoi giovani protagonisti, tutti attori non professionisti. Il film è una sincera testimonianza delle innumerevoli difficoltà affrontate da centinaia di migliaia di persone costrette, ogni giorno, a lasciare il proprio paese( qui siamo in America Latina) pur di raggiungere, col coraggio e la forza del desiderio di vivere, condizioni di vita sostenibili, nei grandi stati occidentali. Ogni dettaglio, dalla fotografia alla caratterizzazione psicologica di Sara, Chauk e Juan, dalla colonna sonora alla sceneggiatura, partecipa armoniosamente, grazie anche ad una regia impeccabile, alla creazione di un'opera d'arte che restituisce dignità alla Vita offesa dall'ingiustizia dell'ignoranza umana, dall'economia dei modelli matematici e crescita infinita, dalla storia riscritta dai vincitori e dall'indifferenza passiva di chi crede che consumare sia un privilegio e non un modo di prendere in giro se stessi. Guardando questa opera si fa esperienza del vero. Come al dipanarsi di piccoli barbagli di luce, che sfumano verso l'alto e diventano stelle, rinunciando ad essere fuliggine e cenere, così le nostre intuizioni d'amore vengono trasformate, grazie anche a questo film, in azioni concrete di bene. Un film che emoziona, commuove fino a farti male, "come il pungiglione di un'ape in fondo alla gola", che ci rende consapevoli, mettendoci a nudo di fronte a noi stessi, che non è più accettabile la nostra pigra e vile mancanza di resistenza e senso critico, sia verso il mondo esterno sia nel nostro mondo interiore, verso noi stessi. Tra limiti strutturali della nostra facoltà di conoscere noi stessi e l'altro, come mondo-natura, o essere umano o animale, e pregiudizi cementificati da troppe giustificate, ma comprensibili, paure, l'uomo come lo spettatore è in balia troppo spesso dell'abitudine, di impulsi e riflessi di un passato deformato(terre straniera). Tuttavia questo limite è il punto di partenza per un'emancipazione perlomeno intellettuale ed emotiva. Questa lotta per la comprensione infatti parte anche dall'esercizio di una resistenza che deve essere militante ogni giorno di fronte al rinascente e reazionario terrorismo contro l'altro, il diverso, l'emarginato. Il ruolo di responsabilità cui siamo vocati, in quanto soggetti autonomi, non può più rimanere inascoltato. Anche questo ci dice "La gabbia dorata".
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adelio
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domenica 2 novembre 2014
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vie ferrate, macchine a vapore, lontana felicita'
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Il viaggio degli immigrati che fuggono dal Sud del Mondo verso un sogno di speranza riposto sempre al Nord, in un Eldorado ricco, industriale e civilizzato offre al neo regista de “La Gabbia dorata” l’opportunità di compiere idealmente il percorso evolutivo dell’uomo moderno dalla sfera dell’antico equilibrio spirituale e naturale al caotico e contraddittorio materialismo contemporaneo. [+]
Il viaggio degli immigrati che fuggono dal Sud del Mondo verso un sogno di speranza riposto sempre al Nord, in un Eldorado ricco, industriale e civilizzato offre al neo regista de “La Gabbia dorata” l’opportunità di compiere idealmente il percorso evolutivo dell’uomo moderno dalla sfera dell’antico equilibrio spirituale e naturale al caotico e contraddittorio materialismo contemporaneo.
Quattro ragazzi, quattro vite, quattro elementi essenziali che contribuiscono dalla nascita a formare e a scrivere il destino dell’uomo.
Parliamo di Rassegnazione (tradizione), di Amore (solidarietà), di Natura (rapporto con i Valori), di Determinazione (Volontà di riscatto della propria condizione)…
Ebbene ognuna di queste caratteristiche è personificata dai 4 ragazzi protagonisti della fuga verso il sogno, il loro interagire crea simbolicamente la “Persona”, supporta l’individuo nella crescita interiore e informa l’uomo sulla via da percorrere.
Il loro viaggio diventa la metafora dell’evoluzione dell’uomo contemporaneo, divenuto materialista, spietato, laico, spregiudicato e privo di valori…è il percorso di abbandono del rapporto di armonia con la natura, la madre terra, ed il passaggio all’aridità, fredda, velenosa e anonima di una civiltà industrializzata disumana.
Juan (Determinazione), Sara (Amore), Samuel (Rassegnazione) partono uniti, incontrano Chauk (Natura e Valori primordiali che non hanno confini né lingua) si completano in un “Unicum” verso la meta, il sogno, l’idea di benessere.
Incontrano il conformismo di una Società ostile che toglie le scarpe a Juan (la determinazione), strumenti indispensabili a compimento del cammino di crescita. L’uomo per avanzare deve perdere Samuel (la rassegnazione..le origini) rimane con i due valori essenziali Sara (l’Amore) e Chauk (la Natura).
In questo avanzare periglioso i treni “portano” inesorabilmente l’uomo verso il destino scelto, nel loro tragitto “imposto” dalle rotaie, escono da una foresta rigogliosa ed avvolgente (come un mostro sbuffante, come il volto di un progresso sconosciuto che avanza) per attraversare paesaggi sempre più poveri, brulli fino ad incontrare al termine del loro incedere territori desertici ed inospitali.
I percorsi dal singolo binario diventano plurimi, più rettilinei ed intricati, le locomotive migliorano tecnologicamente avvicinandosi alla Civiltà ricca e industrializzata. Per arrivare fin qui Juan (la determinazione) perde anche Sara (l’amore), è salvato dalle cure dell’indio Chauk che sarà assassinato da un cecchino prima “l’uomo” faccia il suo ingresso nel sogno materialista ed industriale dove non c’è posto per la Natura ed i Valori.
L’uomo raggiunge il suo obiettivo: perde la Rassegnazione per una speranza, l’Amore per una mercificazione sessuale, la Natura per una falsa ricchezza. Juan con tutta la sua Determinazione finisce in un mattatoio industriale, l’Umanità è carne da macello e il Sogno dell’uomo che vuole raggiungere il benessere non è altro che frattaglie disgustose ramazzate dal pavimento.
Allora non resta che sognare la neve che cade nella notte silente della coscienza umana cercando una luce. Il film inizia con un raggiante cielo azzurro e finisce nel buio di una notte rischiarata dalla sola luce di un lampione, unica speranza di salvezza, ricordo di tutte quelle esperienze di solidarietà umana e di valori veri incontrati dalla Determinazione dell’uomo (Juan) nel suo percorso di progresso. Bel Film.
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no_data
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giovedì 10 luglio 2014
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bello bello bello
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m.barenghi
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venerdì 23 maggio 2014
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il vero viaggio è interiore
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Tre giovani guatemaltechi intraprendono il, viaggio della speranza verso gli USA per sfuggire da una realtà di fame e miseria. Uno dei tre, Samuel, rinuncerà al viaggio alla prima difficoltà con inerente reimpatrio dal Messico. Juan e Sara, gli altri due cui si è aggiunto Chauk -un indio del Chapas che parla solo il proprio dialetto tribale- proseguono il viaggio "ad eliminazione" contro tutto e contro tutti. Uno solo di loro raggiungerà la méta.
Film on-the road avvincente ed appassionante. Più che la storia di un gruppo di migranti il film -il viaggio- racconta le reciproche pulsioni emotive dei tre ragazzi: soprattutto la "conversione" di Juan nei confronti di Chauk, che dall'iniziale avversione e rifiuto lo porterà -nella scena finale- a vivere nella fredda realtà degli USA la stessa nevicata che accompagna ripetutamente i sogni di Chauk nella prima parte del film.
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Tre giovani guatemaltechi intraprendono il, viaggio della speranza verso gli USA per sfuggire da una realtà di fame e miseria. Uno dei tre, Samuel, rinuncerà al viaggio alla prima difficoltà con inerente reimpatrio dal Messico. Juan e Sara, gli altri due cui si è aggiunto Chauk -un indio del Chapas che parla solo il proprio dialetto tribale- proseguono il viaggio "ad eliminazione" contro tutto e contro tutti. Uno solo di loro raggiungerà la méta.
Film on-the road avvincente ed appassionante. Più che la storia di un gruppo di migranti il film -il viaggio- racconta le reciproche pulsioni emotive dei tre ragazzi: soprattutto la "conversione" di Juan nei confronti di Chauk, che dall'iniziale avversione e rifiuto lo porterà -nella scena finale- a vivere nella fredda realtà degli USA la stessa nevicata che accompagna ripetutamente i sogni di Chauk nella prima parte del film. Si sottolinea così una sorta di identificazione dei due ragazzi: il passaggio di testimone da Chauk a Juan di valori esistenziali veri, semplici e positivi rappresenta l'unica nota ottimistica di questo film, peraltro pervaso di dolore e cinismo.
Film asciutto, che non lascia lo spazio per indagare -come se fosse una saga- il destino dei personaggi che di volta in volta si "perdono" (anche se a perdersi sono in realtà tutti quanti nel momento stesso in cui varcano la frontiera, come sottolinea la canzone che accompagna parte del viaggio in treno). Sembra di rivivere in Messico le stesse storie di sfruttamento e dolore raccontate dal "Bilal" di Fabrizio Gatti nel viaggio transafricano verso l'Italia. Con la differenza che il destino di Jian in USA è solo accennato (ripulitore di carcasse di animali morti in uno stabilimento alimentare: più o meno lo stesso lavoro che fa Samuel nella discarica guatemalteca all'inizio del film!!) e forse lo sfruttamento per lui sarà finito. E' comunque questo il suo Eldorado! Chauk, invece, farà la fine di un altro Bilal, quello di "Wellcome", eliminato stavolta a freddo da un cecchino guardia di frontiera.
Gireto in super-16 -cioè un formato che restituisce pienamente alla storia il realismo che le necessita- il film ha ricevuto consensi e premi un po' ovunque: a Giffoni, miglior film dello scorso festival secondo una giuria di ragazzi (complimenti vivissimi per la maturità!!!) e a Cannes 2013 per il miglior casting. E pensare che i ragazzi, come tutti gli altri del resto, sono presi praticamente dalla strada! Su tutti il formidabile Rodolfo Dominguez, che rende a Chauk tutta l'innocenza, la spontaneità, la "solarità-malinconica", la saggezza, in una parola l'umanità che ne fanno un personaggio indimenticabile.
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rampante
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domenica 2 marzo 2014
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on the road
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Una storia che ne racchiude mille altre simili,
il viaggio di tutti gli imigrati che stufi di rimanere fermi sotto il giogo di una grande arretratezza cercano, oltre una frontiera, terre economicamente sviluppate e ricche
Il registra esordiente Diego Quemada-Diez ha fatto più volte il cammino tra il Guatemala e la frontiera Usa e ci racconta storie ed esperienze reali con uno sguardo partecipe verso i più umili e i più emarginati
Tre adolescenti Juan, Sara e Samuel vivono in condizioni pietose nel Guatemala e sognando l'America decidono di lasciare il loro misero villaggio guatemalteco,
fuggono percorrendo un pericoloso tragitto pieno di i
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Una storia che ne racchiude mille altre simili,
il viaggio di tutti gli imigrati che stufi di rimanere fermi sotto il giogo di una grande arretratezza cercano, oltre una frontiera, terre economicamente sviluppate e ricche
Il registra esordiente Diego Quemada-Diez ha fatto più volte il cammino tra il Guatemala e la frontiera Usa e ci racconta storie ed esperienze reali con uno sguardo partecipe verso i più umili e i più emarginati
Tre adolescenti Juan, Sara e Samuel vivono in condizioni pietose nel Guatemala e sognando l'America decidono di lasciare il loro misero villaggio guatemalteco,
fuggono percorrendo un pericoloso tragitto pieno di insidie che attraverso il Messico lì porta negli USA
I tre ragazzi sono convinti di trovare un mondo migliore oltre il confine ma dovranno fare i conti con una dura realtà
Samuel alla prima drammatica difficoltà con la polizia decide di tornare a casa, Juan e Sara continuano il loro un cammino della disperazione contro tutto e tutti per inseguire il sogno di un'altra vita, disposti a vivere e morire alla ricerca di una vita migliore, nel viaggio si aggiunge un indio Chauk, un ragazzo del Chapas che non parla spagnolo e non ha documenti
Solo uno di loro raggiungerà gli USA e si scontrerà con una dura realtà
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angelo umana
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sabato 22 febbraio 2014
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le nostre gabbie
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Si fa presto a dire “immigrato”. Vediamo l’immigrato quando è nel nostro territorio e cerchiamo di non incrociare gli occhi con lui, più confortevole è stare con e nelle nostre “gabbie”. Lo vediamo in qualche modo già inserito nella nostra società, ad esempio come ce lo ha mostrato Andrea Segre nei suoi “Io sono Li” e “La prima neve”. Del suo viaggio da emigrante e delle peripezie per arrivare alle nostre gabbie dorate possiamo solo immaginare: un po’ di viaggio – e che viaggio - lo vedemmo con il ragazzo afgano Bilhal di “Welcome”, che cercò di raggiungere l’Inghilterra da Calais a nuoto, oppure dal barcone del film “Quando sei nato non puoi più nasconderti”, ma lì eravamo più presi dalla sorte del ragazzo italiano che sarebbe annegato se gli stranieri del barcone non l’avessero soccorso.
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Si fa presto a dire “immigrato”. Vediamo l’immigrato quando è nel nostro territorio e cerchiamo di non incrociare gli occhi con lui, più confortevole è stare con e nelle nostre “gabbie”. Lo vediamo in qualche modo già inserito nella nostra società, ad esempio come ce lo ha mostrato Andrea Segre nei suoi “Io sono Li” e “La prima neve”. Del suo viaggio da emigrante e delle peripezie per arrivare alle nostre gabbie dorate possiamo solo immaginare: un po’ di viaggio – e che viaggio - lo vedemmo con il ragazzo afgano Bilhal di “Welcome”, che cercò di raggiungere l’Inghilterra da Calais a nuoto, oppure dal barcone del film “Quando sei nato non puoi più nasconderti”, ma lì eravamo più presi dalla sorte del ragazzo italiano che sarebbe annegato se gli stranieri del barcone non l’avessero soccorso.
Ne “La gabbia dorata” invece "viaggiamo" con quattro ragazzi adolescenti, tre guatemaltechi e l’indio Chauk che si accoda ma non parla la loro lingua, però ha esperienza e dorme sugli alberi. Per comunicare, del resto, la lingua non è sempre strettamente necessaria tra ragazzi, sanno amarsi o litigare comunque: l'unica donna, Sara, che parrebbe dover guidare il gruppo, verrà rapita. Vediamo quasi “dal vivo” le disavventure, i soprusi, le umiliazioni, le rapine e le violenze che subiscono, da parte di bande criminali o di criminali con la divisa da poliziotto. Dal Guatemala vogliono arrivare a Los Angeles: solo Juan e Chauk arrivano negli Stati Uniti, hanno il pensiero fisso e determinato sulla meta. Juan è conquistato dal tragitto, dice al compagno di sentire “uno zoo nel suo stomaco” (che va su e giù per l’emozione o per la fame) e immagina “meraviglioso tutto ciò che è di là”. E’ anche preparato al peggio, ma la casetta di lamiera da cui è partito, quell’agglomerato di uomini e cani, e bambini piangenti, devono sembrargli il peggio, la disperazione o il sogno di un altro futuro lo hanno fatto partire anche di fronte ai pericoli di quell'avventura.
Il loro è un viaggio da poveri che attraversa mille povertà, l’itinerario ne mostra sempre una nuova. Come a significare la gioia di vivere di queste popolazioni si vedono dei bellissimi graffiti su pareti di case malconce: in uno di essi, bellissimo, è raffigurato un corpo femminile nudo che cavalca un animale mostruoso dalla scorza di spine. Nei titoli di coda il nome del regista stesso, Diego-Quemada Diez, è riportato nel ruolo di seconda “càmara”: anche il regista dunque ha provveduto alle riprese, forse ciò rende ancora più realistico il viaggio dei migranti, che diverranno clandestini nella "gabbia dorata" americana. Reti e grate sono numerose, come a ricordare quelle entro cui vive il mondo “sviluppato” o progredito (poco progredito, per tanti versi) e attraverso le quali i poveri ci guardano. Ma protagonisti importanti sono i treni-merce con grappoli di uomini che affollano il tetto dell’ultimo vagone. Una storia di solidarietà data, tra i profughi stessi, e anche negata, dai controllori o predoni su quei percorsi.
Il primo segno di ricchezza ma, ancor più, di potere e di forza che Juan e Chauk vedranno, sono gli elicotteri della guardia di frontiera statunitense. Le barriere del confine col Messico sono ben fortificate e controllate, le supereranno attraverso dei cunicoli con l’aiuto interessato di trafficanti di droga. Non basterà a Chauk essere arrivato, i cecchini statunitensi non perdonano, nemmeno entro il loro territorio. Juan troverà lavoro in una macelleria industriale, raccoglie gli scarti delle migliaia di carcasse che vi vengono lavorate: si trova del resto in una delle “gabbie dorate” dove gli indigeni mangiano tre-quattro o più volte al giorno, l’opulenza dopo tutta la povertà descritta. Vedrà finalmente la neve vera, dopo che il regista l’ha mostrata a intervalli su uno sfondo di cielo notturno, forse erano i fuggitivi che sognavano. Già, ma “quante strade deve percorrere un uomo prima che si possa chiamare uomo?” (frase di Bob Dylan sulle locandine italiane del film).
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robynieri
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giovedì 5 dicembre 2013
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piccolo capolavoro di semplicità
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L'unica pecca che gli si può trovare, forse, è nella musica, che non mi è parsa dello stesso livello del film. Per il resto questo piccolo capolavoro merita davvero di essere visto e apprezzato. Ken Loach può dorimire sogni tranquilli, c'è chi è pronto a proseguire il suo insegnamento...
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angelo umana
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mercoledì 20 novembre 2013
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viaggi della speranza disperati
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Si fa presto a dire “immigrato”. Vediamo l’immigrato quando è nel nostro territorio e cerchiamo di non incrociare gli occhi con lui, più confortevole è stare con e nelle nostre “gabbie”. Lo vediamo in qualche modo già inserito nella nostra società, ad esempio come ce lo ha mostrato Andrea Segre nei suoi “Io sono Li” e “La prima neve”. Del suo viaggio da emigrante e delle peripezie per arrivare alle nostre gabbie dorate possiamo solo immaginare: un po’ di viaggio – e che viaggio - lo vedemmo con il ragazzo afgano Bilhal di “Welcome”, che cercò di raggiungere l’Inghilterra da Calais a nuoto, oppure dal barcone del film “Quando sei nato non puoi più nasconderti”, ma lì eravamo più presi dalla sorte del ragazzo italiano che sarebbe annegato se gli stranieri del barcone non l’avessero soccorso.
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Si fa presto a dire “immigrato”. Vediamo l’immigrato quando è nel nostro territorio e cerchiamo di non incrociare gli occhi con lui, più confortevole è stare con e nelle nostre “gabbie”. Lo vediamo in qualche modo già inserito nella nostra società, ad esempio come ce lo ha mostrato Andrea Segre nei suoi “Io sono Li” e “La prima neve”. Del suo viaggio da emigrante e delle peripezie per arrivare alle nostre gabbie dorate possiamo solo immaginare: un po’ di viaggio – e che viaggio - lo vedemmo con il ragazzo afgano Bilhal di “Welcome”, che cercò di raggiungere l’Inghilterra da Calais a nuoto, oppure dal barcone del film “Quando sei nato non puoi più nasconderti”, ma lì eravamo più presi dalla sorte del ragazzo italiano che sarebbe annegato se gli stranieri del barcone non l’avessero soccorso.
Ne “La gabbia dorata” invece accompagnamo quattro ragazzi adolescenti, tre guatemaltechi e l’indio Chauk che si accoda ma non parla la loro lingua, però ha esperienza e dorme sugli alberi. Per comunicare, del resto, la lingua non è sempre strettamente necessaria tra ragazzi, sanno amarsi o litigare comunque: l'unica donna, Sara, che parrebbe dover guidare il gruppo, verrà rapita. Vediamo quasi “dal vivo” le disavventure, i soprusi, le umiliazioni, le rapine e le violenze che subiscono, da parte di bande criminali o di criminali con la divisa da poliziotto. Dal Guatemala vogliono arrivare a Los Angeles: solo Juan e Chauk arrivano negli Stati Uniti, hanno lo sguardo fisso e determinato sulla meta. Juan è conquistato dal tragitto, dice al compagno di sentire “uno zoo nel suo stomaco” (che va su e giù per l’emozione o per la fame) e immagina “meraviglioso tutto ciò che è di là”. E’ anche preparato al peggio, ma la casetta di lamiera da cui è partito, quell’agglomerato di uomini e cani, e bambini piangenti, devono sembrargli il peggio, la disperazione o il sogno di un altro futuro lo hanno fatto partire anche a costo della vita.
Il loro è un viaggio da poveri che attraversa mille povertà, l’itinerario ne mostra sempre una nuova. Come a significare la gioia di vivere di queste popolazioni si vedono dei bellissimi graffiti su pareti di case malconce: in uno di essi, bellissimo, è raffigurato un corpo femminile nudo che cavalca un animale mostruoso dalla scorza di spine. Nei titoli di coda il nome del regista stesso, Diego-Quemada Diez, è riportato nel ruolo di seconda “càmara”, insomma anche lui ha provveduto alle riprese: forse ciò rende ancora più realistico il viaggio dei migranti, che diverranno clandestini nella gabbia dorata. Reti e grate sono numerose, come a ricordare quelle entro cui vive il mondo “sviluppato” o progredito (poco progredito, per tanti versi) e attraverso le quali i poveri ci guardano. Ma protagonisti importanti sono i treni-merce con grappoli di uomini che affollano il tetto dell’ultimo vagone. Una storia di solidarietà data, tra i profughi stessi, e anche negata, dai controllori o predoni su quei tragitti.
Il primo segno di ricchezza ma, ancor più, di potere e di forza che Juan e Chauk vedranno, sono gli elicotteri della guardia di frontiera statunitense. Le barriere del confine col Messico sono ben fortificate e controllate, le supereranno attraverso dei cunicoli con l’aiuto interessato di trafficanti di droga. Non basterà a Chauk essere arrivato, i cecchini statunitensi non perdonano, nemmeno entro il loro territorio. Juan troverà lavoro in una macelleria industriale, raccoglie gli scarti delle migliaia di carcasse che vi vengono lavorate: si trova del resto in una delle “gabbie dorate” dove gli indigeni mangiano tre-quattro o più volte al giorno, l’opulenza dopo tutta la povertà descritta. Vedrà finalmente la neve vera, dopo che il regista l’ha mostrata in varie pause su uno sfondo di cielo notturno, forse era un sogno da fuggitivi. Già, ma “quante strade deve percorrere un uomo prima che si possa chiamare uomo?” (frase di Bob Dylan sulle locandine italiane del film).
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alediri
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lunedì 18 novembre 2013
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essenziale e realista
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un capolavoro di semplicità. movimenta di macchina semplici e bellissima postura dei corpi dei tre ragazzi. un regista da seguire in ogni cosa. bello bello bello.
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