“De que me sirve el dinero si estoy como prisoniero dentro de esta gran nacion? Cuando me acuerdo hasta lloro, que aunque la jaula sea de oro no deja de ser prision”
“A cosa mi serve il denaro se vivo come un prigioniero in questa grande nazione? Quando ci penso piango, benché la gabbia sia d’oro non smette di essere una prigione”
La jaula de oro
La gabbia dorata citata nella canzone che ha ispirato il titolo dello splendido film di Diego Quemada-Diez è la rappresentazione simbolica dell’allucinante stato di clandestinità in cui si ritrovano i latinos che riescono a entrare illegalmente negli Stati Uniti, dopo quella “discesa agli inferi” che è il terribile viaggio attraverso il Centro America, a piedi o appollaiati sui tetti dei vagoni-merci del tren de la muerte. Delle migliaia di messicani, honduregni, salvadoregni e guatemaltechi, spesso giovanissimi, che partono tutti i giorni con il miraggio di una vita migliore, i pochi che riescono a oltrepassare il confine e calpestare il suolo americano, sopravvissuti al caldo torrido del deserto, alle bande di delinquenti, ai narcotraffi-canti, ai sequestri e infine scampati alle retate della polizia di frontiera, si ritrovano clandestini, senza poter essere regolarizzati né poter tornare indietro, costretti ad accettare, quando va bene, i lavori più umili, malpagati e sfruttati. Ma nella gabbia dorata la maggioranza dei migranti non ci entrerà mai, il sogno di un lavoro dignitoso, di un riscatto sociale, resterà tale.
Di questo parla il memorabile esordio del regista spagnolo Quemada-Diez, della crudele e straziante odissea che ha per protagonisti tre ragazzini guatemaltechi e un indio del Chiapas messicano. Juan, scontroso e malinconico, Sara, vestita da maschio e con il seno fasciato per non essere sequestrata, e Samuel, il più dubbioso e incerto, fuggono dalle favelas di Città del Guatemala, precisamente dalla zona 3, una delle più povere e pericolose baraccopoli del mondo. Durante il lungo cammino Samuel si arrenderà e tornerà indietro, lo sostituirà Chauk, un indio silenzioso che parla solo la lingua nativa tzotzil.
Sarà un viaggio dolorosissimo e spietato, pieno di colpi di scena e insidie, di incontri con persone malvagie ma anche solidali come i campesinos che lanciano viveri al treno in corsa o i padri missionari che li ospiteranno. Un lungo cammino che sarà anche una crescita personale. La frontiera da superare non è solo geografica, c’è anche quella del passaggio all’età adulta e della scoperta dell’amicizia, della difficile comprensione che la solidarietà è più importante dell’individualismo.
Quello che alle prime scene potrebbe apparire un documentario di denuncia pian piano si rivela un film complesso e articolato, ricco di spunti di riflessione e di poesia, oltre che di immagini e scene difficili da dimenticare.
Una regia tanto diretta quanto intensa, con un uso efficacissimo della camera a spalla, restituisce perfettamente l’autenticità della storia, il senso pieno di cinema-verità. Non c’è nessun esibizionismo nella crudeltà o nelle scene di violenza, sono talmente “vere” che spesso è sufficiente evocarle per trasmettere un senso di angoscia.
Con il passare dei minuti si crea con i giovani protagonisti un’empatia totale, un pathos in cui condividiamo sentimenti e speranze, frustrazioni e disperazione.
Quello che più colpisce è l’assoluta sincerità e l’onesta intellettuale di Quemada-Diez: ha lavorato al film per dieci lunghi anni percorrendo tre volte il viaggio con i migranti dal Guatemala fino agli Stati Uniti, raccogliendo e documentando più di cinquecento testimonianze dirette, rischiando più volte la vita, esattamente come Juan, Sara e Chauk. Per scegliere i tre formidabili protagonisti guatemaltechi ha fatto un casting con 3000 ragazzini nelle favelas di Città del Guatemala, per trovare Chauk si è inoltrato nei villaggi più sperduti del Chiapas messicano. Tutti gli episodi e i dettagli della sceneggiatura sono accaduti veramente, il regista si è solo limitato ad assemblarli in una unica storia. E’ per questo che La gabbia dorata è un pugno allo stomaco, perché capiamo subito che una ragazzina si è veramente vestita da maschio, un altro ha davvero comprato degli stivali da vaqueros, come è vero che un bambino del Chiapas ha detto al regista di voler andare negli Stati Uniti per vedere cadere la neve.
Quella neve candida come i sogni di un ragazzino indio che oppone la saggezza del silenzio e la spiritualità di una cultura millenaria alla violenza e alla barbarie del ricco occidente.
[+] lascia un commento a sergio dal maso »
[ - ] lascia un commento a sergio dal maso »
|