rmarci 05
|
martedì 9 luglio 2019
|
un film geniale, necessario e coraggioso
|
|
|
|
I fratelli Taviani, acclamati autori del cinema italiano contemporaneo, riesumano il Giulio Cesare di W. Shakespeare trasportandolo all'interno degli ambienti inospitali e decadenti del carcere di Rebibbia in un film estremamente originale, che ha il principale merito di far scoprire l'arte ai detenuti rendendoli consapevoli del patrimonio culturale che hanno perduto e sottolineando l'importanza che l'arte può avere come strumento per un percorso di redenzione, di riscatto sociale. Ciò avviene grazie anche alla recitazione in dialetto, in modo che gli interpreti possano immedesimarsi maggiormente nei personaggi fino a ritrovare loro stessi all'interno dell'opera di Shakespeare, un testo letterario notoriamente senza tempo che affronta tematiche ancora oggi molto attuali come la congiura, il tradimento, le menzogne, la perdita ed il prezzo del potere.
[+]
I fratelli Taviani, acclamati autori del cinema italiano contemporaneo, riesumano il Giulio Cesare di W. Shakespeare trasportandolo all'interno degli ambienti inospitali e decadenti del carcere di Rebibbia in un film estremamente originale, che ha il principale merito di far scoprire l'arte ai detenuti rendendoli consapevoli del patrimonio culturale che hanno perduto e sottolineando l'importanza che l'arte può avere come strumento per un percorso di redenzione, di riscatto sociale. Ciò avviene grazie anche alla recitazione in dialetto, in modo che gli interpreti possano immedesimarsi maggiormente nei personaggi fino a ritrovare loro stessi all'interno dell'opera di Shakespeare, un testo letterario notoriamente senza tempo che affronta tematiche ancora oggi molto attuali come la congiura, il tradimento, le menzogne, la perdita ed il prezzo del potere. Quello che conta inoltre, è la rappresentazione e la preparazione dello spettacolo teatrale: esso è ambientato all'interno del carcere, con un utilizzo molto limitato delle scenografie e dei costumi. I due registi, infatti, puntano soprattutto sulla straordinaria bravura degli interpreti, sull'affascinante fotografia in bianco e nero e sulla colonna sonora avvolgente ed ipnotica. Tutte scelte stilistiche che, fortunatamente, sono valori aggiunti alla buona riuscita dell'opera. In conclusione, un film impegnativo e a tratti difficile da seguire, ma indubbiamente necessario, geniale ed incredibilmente coraggioso.
[-]
|
|
[+] lascia un commento a rmarci 05 »
[ - ] lascia un commento a rmarci 05 »
|
|
d'accordo? |
|
andrea'70
|
venerdì 30 marzo 2012
|
'da quando ho conosciuto l'arte,questa cella è ...
|
|
|
|
E chi si aspettava dai F.lli Taviani a 80 passati(e dopo qualche film un pò sottotono),un film così potente e fresco,sperimentale come neanche un regista trentenne saprebbe fare! Andatelo a vedere a tutti i costi e soprattutto in sala,solo lì vi arriveranno tutte le magnifiche emozioni che suscita. Ringraziamo F.Cavalli per il suo impegno civile,per far nascere in questi uomini che hanno sbagliato(e stanno pagando per questo a Rebibbia)la passione per l'arte che redime una vita e può riempire il tedio del carcere.Eccellente la scelta degli attori(tutti perfetti!)che stranamente mi hanno ricordato fisicamente quelli del classico film di Mankiewicz ma non hanno niente da invidiargli(e non hanno la frangetta che tanto faceva sorridere R.
[+]
E chi si aspettava dai F.lli Taviani a 80 passati(e dopo qualche film un pò sottotono),un film così potente e fresco,sperimentale come neanche un regista trentenne saprebbe fare! Andatelo a vedere a tutti i costi e soprattutto in sala,solo lì vi arriveranno tutte le magnifiche emozioni che suscita. Ringraziamo F.Cavalli per il suo impegno civile,per far nascere in questi uomini che hanno sbagliato(e stanno pagando per questo a Rebibbia)la passione per l'arte che redime una vita e può riempire il tedio del carcere.Eccellente la scelta degli attori(tutti perfetti!)che stranamente mi hanno ricordato fisicamente quelli del classico film di Mankiewicz ma non hanno niente da invidiargli(e non hanno la frangetta che tanto faceva sorridere R.Barthes!).Su tutti giganteggia il Bruto di Striano ma non sono da meno gli interpreti di Cesare e M.Antonio(se Brando ebbe gli applausi dei tecnici mentre leggeva il testamento di Cesare al popolo,il nostro sembra un mastino,un capoultras carismatico che scatena un uragano nel carcere/foro di Roma) ma anche Cassio che dice la battuta più bella una volta smessa la recita e tornato alla routine quotidiana('da quando ho conosciuto l'arte,questa cella è una prigione').Stupenda e naturalissima l'idea di adattare i versi del'Giulio Cesare' di Shakespeare ai dialetti degli interpreti.Insomma Orso d'Oro meritatissimo,impossibile non appassionarsi e commuoversi! Keep the Faith!
[-]
[+] finzion e realtà "cesare deve morire"
(di ifigenia)
[ - ] finzion e realtà "cesare deve morire"
[+] la vita imita l'arte
(di andrea'70)
[ - ] la vita imita l'arte
|
|
[+] lascia un commento a andrea'70 »
[ - ] lascia un commento a andrea'70 »
|
|
d'accordo? |
|
dario
|
giovedì 4 giugno 2015
|
originale
|
|
|
|
Gli nuoce la mancanza di narrazione. Le scene sono a se stanti e risentono della solita teatralità, tipica delle opere tratte da testi classici. Si decanta più che recitare. Non poco gli attori (improvvisati) riescono a contenere il fenomeno grazie ad una semplicità che li fa convincenti, molto più di tanti professionisti. Regia manierata ma efficace, meglio scenografia e fotografia. Belle le metafore sottese.
|
|
[+] lascia un commento a dario »
[ - ] lascia un commento a dario »
|
|
d'accordo? |
|
pensierocivile
|
lunedì 4 febbraio 2013
|
nessuno sciopero della fame
|
|
|
|
Film importante, doloroso, coraggioso, vitale, che va ben al di là della resa cinematografica, comunque di buon livello. I Taviani non gridano, lasciano che a raccontare sia il teatro, la preparazione, la possibilità di partecipare e, ignorando ogni artificio retorico, arrivano ai valori assoluti senza bisogno di alcuno sciopero della fame. Terribile è l'avvio, ripreso poi nel finale, con il ritorno alla "vita" o in attesa di poter raccontare altro, terribili sono quelle celle che si chiudono dopo una gioia, ma non c'è assoluzione, il racconto è racconto, le condanne sono un timbro sotto i volti. CESARE DEVE MORIRE raggiunge vette di grande cinema nell'uso degli ambienti, laddove il carcere scompare, scenografia fantastica e crudele, "sfruttato" per l'attesa del giorno dello spettacolo.
[+]
Film importante, doloroso, coraggioso, vitale, che va ben al di là della resa cinematografica, comunque di buon livello. I Taviani non gridano, lasciano che a raccontare sia il teatro, la preparazione, la possibilità di partecipare e, ignorando ogni artificio retorico, arrivano ai valori assoluti senza bisogno di alcuno sciopero della fame. Terribile è l'avvio, ripreso poi nel finale, con il ritorno alla "vita" o in attesa di poter raccontare altro, terribili sono quelle celle che si chiudono dopo una gioia, ma non c'è assoluzione, il racconto è racconto, le condanne sono un timbro sotto i volti. CESARE DEVE MORIRE raggiunge vette di grande cinema nell'uso degli ambienti, laddove il carcere scompare, scenografia fantastica e crudele, "sfruttato" per l'attesa del giorno dello spettacolo. Meno riuscito l'innesto di episodi di vita carceraria, quando il registro di colpo cambia e gli attori devono inseguire la realtà, mostrare caratteri, contrasti e sentimenti: forse si chiede troppo ad interpreti che riempiono i rispettivi personaggi di un talento grezzo ma innegabile.
[-]
|
|
[+] lascia un commento a pensierocivile »
[ - ] lascia un commento a pensierocivile »
|
|
d'accordo? |
|
enzo70
|
martedì 4 febbraio 2014
|
un film necessario per capire
|
|
|
|
“Fine pena mai” il sottotitolo all’inizio del film, film che finisce con questa frase: “da quando ho conosciuto l’arte questa cella è diventata una prigione”. Film di rara potenza e freschezza espressiva, esercizio durissimo di trasposizione di dolore e speranza, dove la seconda prevale sulla prima, il cinema italiano matura un debito enorme con questi due registi ultraottantenni per un film su un tema attuale come quello della detenzione che ha il tono dell’eternità dell’arte di Shakespeare. Non c’è l’irriverenza di Nanni Loy nello splendido scugnizzi, i Taviani mettono sul proscenio i detenuti di Rebibbia, tutti con pene definitive importanti, il che significa una vita in carcere, e gli chiedono di interpretare un classico della tragedia di sempre, di farlo in dialetto, con semplicità, per non perdere il pathos del tradimento di Giulio Cesare da parte di Bruto.
[+]
“Fine pena mai” il sottotitolo all’inizio del film, film che finisce con questa frase: “da quando ho conosciuto l’arte questa cella è diventata una prigione”. Film di rara potenza e freschezza espressiva, esercizio durissimo di trasposizione di dolore e speranza, dove la seconda prevale sulla prima, il cinema italiano matura un debito enorme con questi due registi ultraottantenni per un film su un tema attuale come quello della detenzione che ha il tono dell’eternità dell’arte di Shakespeare. Non c’è l’irriverenza di Nanni Loy nello splendido scugnizzi, i Taviani mettono sul proscenio i detenuti di Rebibbia, tutti con pene definitive importanti, il che significa una vita in carcere, e gli chiedono di interpretare un classico della tragedia di sempre, di farlo in dialetto, con semplicità, per non perdere il pathos del tradimento di Giulio Cesare da parte di Bruto. E se l’arte deve toccare le corde del cuore, questo film parte da quelli dei protagonisti, attori non per caso, la vita è fatta di bivi, tanti bivi. Il dibattito sul tema della detenzione, anzi sulla funzione della stessa, dovrebbe partire da uno spirito alto, quello dei film dei Taviani, perché questa strana nazione è fatta da gente che parla senza sapere di cosa parla e di gente che fa un film così dove alla fine non sai di cosa parlare perché senti il dolore degli altri. Come in una commedia di Shakespeare recitata a Rebibbia.
[-]
|
|
[+] lascia un commento a enzo70 »
[ - ] lascia un commento a enzo70 »
|
|
d'accordo? |
|
enrichetti
|
sabato 24 marzo 2012
|
conoscere con la poesia
|
|
|
|
C'è un modo per arrivare al cuore delle questioni, anche quando si tratta di argomenti, come il carcere, intorno ai quali circola più immaginario che conoscenza. Il modo è la poesia. Nel 2007 Alessandro Angelini indagava i tormenti di un educatore penitenziario alle prese con il proprio padre detenuto (L'aria salata). Due anni dopo Davide Ferrario sbirciava dall'esterno un allestimento teatrale, sfiorando i muri del penitenziario (Tutta colpa di Giuda). 2012: i fratelli Taviani entrano in carcere, mettono in gioco se stessi, con sguardo fisico, viscerale, poetico. La poesia si immerge in quello che canta, si sporca, osa, sveste e si denuda. E allora entriamo con loro in una galera.
[+]
C'è un modo per arrivare al cuore delle questioni, anche quando si tratta di argomenti, come il carcere, intorno ai quali circola più immaginario che conoscenza. Il modo è la poesia. Nel 2007 Alessandro Angelini indagava i tormenti di un educatore penitenziario alle prese con il proprio padre detenuto (L'aria salata). Due anni dopo Davide Ferrario sbirciava dall'esterno un allestimento teatrale, sfiorando i muri del penitenziario (Tutta colpa di Giuda). 2012: i fratelli Taviani entrano in carcere, mettono in gioco se stessi, con sguardo fisico, viscerale, poetico. La poesia si immerge in quello che canta, si sporca, osa, sveste e si denuda. E allora entriamo con loro in una galera. Non si tratta di epica malavitosa, nè di eroismo dei carcerieri, si tratta della quotidianità che ha proprio quella metrica, apri esci chiudi, apri entra chiudi, un ritmo seriale su corpi vivi che resistono, si dibattono. La quotidianità è quel via vai apparentemente insensato di persone nei corridoi scoperti, ripreso dall'alto dalla telecamera del sistema di sicurezza. E' la derisione da parte dei compagni verso chi sperimenta ruoli altri. I dubbi di questi ultimi, quando si chiedono se magari non sia meglio rimanere coatti e tenere bassa l'asticella dei (bi)sogni. I provini degli attori sembrano un'immatricolazione. Lo studio delle parti ha la tensione di una preparazione al processo. Il processo stesso è un incubo, un'ossessione. Una necessità: Cesare deve morire. E' l'unico modo per essere liberi dalla tirannia, anche quando comporti il prezzo di una condanna fine pena mai. Forse.
[-]
|
|
[+] lascia un commento a enrichetti »
[ - ] lascia un commento a enrichetti »
|
|
d'accordo? |
|
dario
|
giovedì 4 giugno 2015
|
originale
|
|
|
|
Gli nuoce la mancanza di narrazione. Non c'è crescita drammatica, ma tante scene teatralizzate, secondo la solita abitudine di decantare invece di recitare, tipica della messa in scena di testi classici. Non poco si salva grazie agli attori, più bravi, qui, di tanti professionisti. Regia rigida, manierata, ma sincera e d'effetto, Meglio la scenografia. Belle metafore all'interno.
|
|
[+] lascia un commento a dario »
[ - ] lascia un commento a dario »
|
|
d'accordo? |
|
olgadik
|
domenica 11 marzo 2012
|
spontaneità e verità tra shakespeare e taviani
|
|
|
|
Cesare è morto e continuerà a morire, ma l’opera di Shakespeare vive perché è interprete di sentimenti universali ed analisi potente, per chi sappia leggerla, della psiche umana. A presentare una rilettura del “Giulio Cesare” del grande commediografo inglese sono i fratelli Taviani, collocandola in un contesto singolare di cui molto si parla in queste settimane con distratta attenzione. Il ritorno al cinema, dopo i sei anni trascorsi da “La masseria delle allodole”, ha fatto ritrovare al .pubblico la possibilità di veder ancora fuse in una grande opera le varie componenti che caratterizzano da sempre la produzione dei due fratelli: la cronaca che si trasforma in storia e questa in epica, le azioni umane come dettato delle passioni che si agitano nel profondo, l’inesorabilità del fato che in veste di giustizia condanna le persone alla morte quotidiana del penitenziario.
[+]
Cesare è morto e continuerà a morire, ma l’opera di Shakespeare vive perché è interprete di sentimenti universali ed analisi potente, per chi sappia leggerla, della psiche umana. A presentare una rilettura del “Giulio Cesare” del grande commediografo inglese sono i fratelli Taviani, collocandola in un contesto singolare di cui molto si parla in queste settimane con distratta attenzione. Il ritorno al cinema, dopo i sei anni trascorsi da “La masseria delle allodole”, ha fatto ritrovare al .pubblico la possibilità di veder ancora fuse in una grande opera le varie componenti che caratterizzano da sempre la produzione dei due fratelli: la cronaca che si trasforma in storia e questa in epica, le azioni umane come dettato delle passioni che si agitano nel profondo, l’inesorabilità del fato che in veste di giustizia condanna le persone alla morte quotidiana del penitenziario. Il tutto rappresentato in una sintesi lucida e sentita, lineare e quasi distaccata, ma percorsa da un’adesione e condivisione straordinaria. “Cesare deve morire” ha svolgimento nel carcere romano di Rebibbia, sezione Alta Sicurezza, dove ogni anno il regista Fabio Cavalli realizza con quei detenuti che superano il provino uno spettacolo teatrale come un momento catartico e liberatorio unico per i detenuti. Questi spesso scontano il carcere a vita e hanno sulle spalle il peso di delitti di mafia, omicidi, spaccio di droga. E la cinepresa digitale dei Taviani riprende proprio il faticoso impegno del loro collega nei vari momenti della realizzazione, aggiungendo ad essa la propria impronta inconfondibile. Ad esempio la scelta di un bianco e nero di tipo neorealistico che marca tutto il film. Dello spettacolo shakespeariano si mostrano i due momenti di massima drammaticità: l’uccisione di Cesare e la fine di Bruto e Cassio a Filippi. L’attenzione è concentrata sulla figura di Antonio come ambiguo personaggio di raccordo tra i due momenti che si tingono di rosso, il colore della passione e del sangue. Finito lo spettacolo, tutti tornano nel silenzio delle loro celle. Ma sarà tutto come prima? La dinamica dei sentimenti forti e già noti ai reclusi, come odio, conflitto, tradimento, onore, colpa, viene allo scoperto durante l’allestimento della rappresentazione come riflesso di quanto sulla scena si verifica tra Cesare e i congiurati. Ed è con grande finezza che i Taviani fanno entrare e uscire da se stessi i personaggi e gli interpreti. La verità delle loro esistenze è sempre presente o latente ma mai enfatizzata, risolta in lampi di sguardi, momenti di tensione in salita, accenni pudichi ai ricordi personali, presenti solo in forme riservate e insieme intense, quali un manifesto raffigurante un tratto di mare o il gesto di un detenuto che con la mano accarezza una poltrona del teatro pensando che forse su di essa l’indomani siederà una donna.
E alla fine comunque si torna a Rebibbia e alla sua realtà, rettangoli di sbarre che delimitano notti e giorni interminabili per chi ha sbagliato avendo (forse!) come piccola scusante la povertà e l’ignoranza. La maggior patte di loro non a caso proviene dalla Napoli più oltraggiata, da quella parte della Sicilia contigua al potere mafioso, dai quartieri violenti della metropoli. Di quell’appartenenza i carcerati serbano tuttora come prezioso riferimento identitario e creativo il dialetto, che i registi hanno voluto contrapporre alla lingua colta di W. Shakespeare. Un’altra scelta anticonformista e tesa ad esaltare spontaneità e verità.Cesare è morto e continuerà a morire, ma l’opera di Shakespeare vive perché è interprete di sentimenti universali ed analisi potente, per chi sappia leggerla, della psiche umana. A presentare una rilettura del “Giulio Cesare” del grande commediografo inglese sono i fratelli Taviani, collocandola in un contesto singolare di cui molto si parla in queste settimane con distratta attenzione. Il ritorno al cinema, dopo i sei anni trascorsi da “La masseria delle allodole”, ha fatto ritrovare al .pubblico la possibilità di veder ancora fuse in una grande opera le varie componenti che caratterizzano da sempre la produzione dei due fratelli: la cronaca che si trasforma in storia e questa in epica, le azioni umane come dettato delle passioni che si agitano nel profondo, l’inesorabilità del fato che in veste di giustizia condanna le persone alla morte quotidiana del penitenziario. Il tutto rappresentato in una sintesi lucida e sentita, lineare e quasi distaccata, ma percorsa da un’adesione e condivisione straordinaria. “Cesare deve morire” ha svolgimento nel carcere romano di Rebibbia, sezione Alta Sicurezza, dove ogni anno il regista Fabio Cavalli realizza con quei detenuti che superano il provino uno spettacolo teatrale come un momento catartico e liberatorio unico per i detenuti. Questi spesso scontano il carcere a vita e hanno sulle spalle il peso di delitti di mafia, omicidi, spaccio di droga. E la cinepresa digitale dei Taviani riprende proprio il faticoso impegno del loro collega nei vari momenti della realizzazione, aggiungendo ad essa la propria impronta inconfondibile. Ad esempio la scelta di un bianco e nero di tipo neorealistico che marca tutto il film. Dello spettacolo shakespeariano si mostrano i due momenti di massima drammaticità: l’uccisione di Cesare e la fine di Bruto e Cassio a Filippi. L’attenzione è concentrata sulla figura di Antonio come ambiguo personaggio di raccordo tra i due momenti che si tingono di rosso, il colore della passione e del sangue. Finito lo spettacolo, tutti tornano nel silenzio delle loro celle. Ma sarà tutto come prima? La dinamica dei sentimenti forti e già noti ai reclusi, come odio, conflitto, tradimento, onore, colpa, viene allo scoperto durante l’allestimento della rappresentazione come riflesso di quanto sulla scena si verifica tra Cesare e i congiurati. Ed è con grande finezza che i Taviani fanno entrare e uscire da se stessi i personaggi e gli interpreti. La verità delle loro esistenze è sempre presente o latente ma mai enfatizzata, risolta in lampi di sguardi, momenti di tensione in salita, accenni pudichi ai ricordi personali, presenti solo in forme riservate e insieme intense, quali un manifesto raffigurante un tratto di mare o il gesto di un detenuto che con la mano accarezza una poltrona del teatro pensando che forse su di essa l’indomani siederà una donna. E alla fine comunque si torna a Rebibbia e alla sua realtà, rettangoli di sbarre che delimitano notti e giorni interminabili per chi ha sbagliato avendo (forse!) come piccola scusante la povertà e l’ignoranza. La maggior patte di loro non a caso proviene dalla Napoli più oltraggiata, da quella parte della Sicilia contigua al potere mafioso, dai quartieri violenti della metropoli. Di quell’appartenenza i carcerati serbano tuttora come prezioso riferimento identitario e creativo il dialetto, che i registi hanno voluto contrapporre alla lingua colta di W. Shakespeare. Un’altra scelta anticonformista e tesa ad esaltare spontaneità e verità.
[-]
|
|
[+] lascia un commento a olgadik »
[ - ] lascia un commento a olgadik »
|
|
d'accordo? |
|
cristiana narducci
|
lunedì 5 marzo 2012
|
piu' giovani dei giovani!
|
|
|
|
Gli ottantenni fratelli Taviani dimostrano che si può essere più giovani dei giovani, se si hanno idee da proporre e se si sa come proporle! Questa pellicola non è solo arte, ma svolge anche una funzione sociale fondamentale: per chi è in carcere, scavando dentro le profondità di sé stessi in un processo di evoluzione, e per gli spettatori, trasmettendo il messaggio che persino l'individuo più distruttivo ed apparentemente reietto è pur sempre un essere umano degno di un'ulteriore possibilità. I fratelli Taviani in questo senso ci fanno intraprendere un processo educativo, dimostrazione che non esiste soltanto l'intrattenimento ma ci possono essere finalità ben più alte.
|
|
[+] lascia un commento a cristiana narducci »
[ - ] lascia un commento a cristiana narducci »
|
|
d'accordo? |
|
desgi
|
lunedì 19 marzo 2012
|
il dolore dignitoso di un destino tragico
|
|
|
|
I fratelli Taviani portano Shakespeare nel carcere di massima sicurezza a Rebibbia, improvvisano un provino per i detenuti, realizzano un cast e la tragedia può essere allestita. L'operazione, non nuova, del coinvolgimento di detenuti nella recitazione, viene qui condotta in modo intelligente, rovesciando gli schemi consueti: non più gli attori che recitano un testo, ma un autore, il grande Shakespeare, che attraverso la sua opera permette agli attori di rappresentare se stessi. Infatti, l'attenzione è tutta per gli attori, per i loro visi incredibilmente espressivi e belli, per i loro sguardi profondoi e taglienti, per i loro corpi dolenti e tatuati, per le loro pance flaccide che scuotono lo schermo, per le loro parlate gergali che aggiungono verità ad un testo già di per sè perfetto.
[+]
I fratelli Taviani portano Shakespeare nel carcere di massima sicurezza a Rebibbia, improvvisano un provino per i detenuti, realizzano un cast e la tragedia può essere allestita. L'operazione, non nuova, del coinvolgimento di detenuti nella recitazione, viene qui condotta in modo intelligente, rovesciando gli schemi consueti: non più gli attori che recitano un testo, ma un autore, il grande Shakespeare, che attraverso la sua opera permette agli attori di rappresentare se stessi. Infatti, l'attenzione è tutta per gli attori, per i loro visi incredibilmente espressivi e belli, per i loro sguardi profondoi e taglienti, per i loro corpi dolenti e tatuati, per le loro pance flaccide che scuotono lo schermo, per le loro parlate gergali che aggiungono verità ad un testo già di per sè perfetto. Davanti all'occhio della cinepresa, i detenuti si confessano fino in fondo, nel sottile gioco psicologico organizzato dai due registi. Prevale, insieme al rimpianto, spesso celato dall'orgoglio, la voglia di riscattarsi, ma ciò che resta nell'opera è la rappresentazione di un destino tragico, sopportato però con grande dignità. Il destino di Cesare, la morte dopo il trionfo, il sacrificio dopo la sopraffazione, è argomento troppo vicino alle cose degli uomini per non essere pienamente compreso da chi ha già fatto i conti con la vita.
[-]
|
|
[+] lascia un commento a desgi »
[ - ] lascia un commento a desgi »
|
|
d'accordo? |
|
|