
La serie si chiude con un finale ingegnoso, dalla logica psicologica impeccabile e con una sua 'giustizia poetica'.
di Andrea Fornasiero
Nata come un adattamento americano della serie israeliana Hatufim, Homeland ha raccontato per le prime tre stagioni la tormentata relazione tra Nicholas Bordy, un eroe di guerra che in realtà ha fini terroristici, e Carrie Mathison, l'agente CIA che prima lo sorveglia con sospetto e poi lo sfrutta come una risorsa, il tutto mentre si innamora di lui. Dalla quarta stagione la serie assume una struttura quasi antologica, raccontando ogni volta una diversa situazione per Carrie contro una nuova minaccia e spesso in una differente location, spaziando dall'Afghanistan alla Germania, fino al fronte domestico per poi tornare nuovamente in Afghanistan nell'ultima stagione. È una presenza costante il suo mentore Saul Berenson, inoltre l'affiancano anche Peter Quinn, un assassino della CIA esperto in missioni in nero, e successivamente il russo Yevgeny Gromov, che instaura con lei un complesso scambio di alleanze e tradimenti.
Moderna epopea sullo stato dello spionaggio e dei rapporti tra le Nazioni, oltre che sul loro altissimo costo umano, Homeland ha raccontato la politica internazionale dei nostri tempi come nessun'altra serie ha osato fare.
Fin dall'inizio è stata attraversata dal senso di colpa per le azioni americane all'estero, con Brody che pensa di tradire il proprio Paese perché ha assistito alla morte di un bambino nel corso di un bombardamento. Il padre del ragazzino è un terrorista, che accudisce Brody e lo converte all'Islam, ma niente di tutto questo sarebbe possibile senza quel peccato originale. Saul è una figura paterna, ma essere anche duro e spietato all'occorrenza, tanto da veder franare il suo matrimonio.
VAI ALLA RECENSIONE COMPLETA