paioco89
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giovedì 1 luglio 2010
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un trattato su pellicola della poetica alleniana
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Una commedia semplice, come spesso Allen sa fare, arricchita all'eccesse del suo nichilismo, cinismo e agnosticismo ormai celeberrimo. Questi sono gli ingredienti della serie "i grandi classici" presenti in questa pellicola che si mostra più come un trattato filosofico sull'esistenza umana che un film vero e proprio. Storie ormai sempre simili (o quasi) all'ormai archiviato "Anithing Else". Una sceneggiatura semplice ma curata nei minimi dettagli dove le battute del genio newyorkese andrebbero annoverate ogni minuto, rimanendo però confinate in un personaggio (Ed Begley jr.) che sembra interagire solo col pubblico (rappresentato da Evan Rachel Wood), cercando d'insegnare palesemente a vivere secondo i canoni alleniani.
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Una commedia semplice, come spesso Allen sa fare, arricchita all'eccesse del suo nichilismo, cinismo e agnosticismo ormai celeberrimo. Questi sono gli ingredienti della serie "i grandi classici" presenti in questa pellicola che si mostra più come un trattato filosofico sull'esistenza umana che un film vero e proprio. Storie ormai sempre simili (o quasi) all'ormai archiviato "Anithing Else". Una sceneggiatura semplice ma curata nei minimi dettagli dove le battute del genio newyorkese andrebbero annoverate ogni minuto, rimanendo però confinate in un personaggio (Ed Begley jr.) che sembra interagire solo col pubblico (rappresentato da Evan Rachel Wood), cercando d'insegnare palesemente a vivere secondo i canoni alleniani. I primi 5 minuti si presentano con un quasi piano sequenza stucchevole e noioso, mentre la maggior parte del film è ambientata all'interno di uno scarno appartamento americano privo di ogni scenografia (e regia oserei dire). Allen è più concentrato nel "dire" e raccontare la sua filosofia attraverso le parole che le immagini e dunque tralasciando completamente la prima finalità del cinema: l'immagine. Spesso la sua "regia" (se cosi vogliamo definirla) si limita a 2/3 inquadrature per scena, dilungate nel tempo, con un montaggio assente e un insieme d'immagini che quasi sembrano di accompamento più che di racconto. Se in "Match Point" il tema della fortuna viene raccontato prima di tutto con l'immagine (geniale) di una pallina da tennis che rimbalza sulla rete, in "Manhattan" si racconta, anche grazie alla stupenda fotografia, l'amore e la malinconia, qui Allen mette in tavola tutta la sua poetica in un frappè di parole e dialoghi fini a se stessi, che non raccontano una storia da iniziare e concludere in 92 minuti ma che palesano esclusivamente il suo pensiero rendendo il tutto una grande intervista per il pubblico a lui caro.
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germi86
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martedì 29 giugno 2010
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w.a.
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commedia piacevole,d'altra parte dove cè woody allen il film non delude mai,se fosse stato presente nel film anche come attore avrebbe reso ancora di più questa pellicola con battute divertenti e attori cmq all'altezza della situazione. Non il miglior allen per i miei gusti,ma il film rimane d'apprezzare.
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riccardo-87
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sabato 22 maggio 2010
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allen sulla linea filosofica di gino paoli
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Vi ricordate della canzone “eravamo quattro amici al bar”? bene, il film di Allen mi sembra ricalcare la filosofia di vita che scaturisce dalla canzone di Gino Paoli, il quale cantava la disillusione di coloro – che rappresentano la maggior parte dei giovani – i quali si credono destinati a grandi cose; Robin Williams ne parlava ne “l’attimo fuggente” quando ala sua prima lezione porta i ragazzi a guardare le foto degli studenti del passato e dice “i loro occhi sono pieni di speranza (..) sicuri, invincibili, il mondo è la loro ostrica; avranno aspettato troppo per realizzare anche solo una piccola parte delle loro capacità?”. Ma se Williams utilizzava queste frasi per incitare i ragazzi al “carpe diem”, nella canzone di Paoli e nel film di Allen la disillusione è trattata sia come conseguenza inevitabile del prendere coscienza della realtà e della vita al di fuori del mondo dei sogni e delle speranze sia come un moto di rassegnazione che sorge spontaneo – secondo i due – nel cuore degli uomini; ed allora che, come dice Boris ( Larry David), ci si accontenta del “basta che funzioni”.
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Vi ricordate della canzone “eravamo quattro amici al bar”? bene, il film di Allen mi sembra ricalcare la filosofia di vita che scaturisce dalla canzone di Gino Paoli, il quale cantava la disillusione di coloro – che rappresentano la maggior parte dei giovani – i quali si credono destinati a grandi cose; Robin Williams ne parlava ne “l’attimo fuggente” quando ala sua prima lezione porta i ragazzi a guardare le foto degli studenti del passato e dice “i loro occhi sono pieni di speranza (..) sicuri, invincibili, il mondo è la loro ostrica; avranno aspettato troppo per realizzare anche solo una piccola parte delle loro capacità?”. Ma se Williams utilizzava queste frasi per incitare i ragazzi al “carpe diem”, nella canzone di Paoli e nel film di Allen la disillusione è trattata sia come conseguenza inevitabile del prendere coscienza della realtà e della vita al di fuori del mondo dei sogni e delle speranze sia come un moto di rassegnazione che sorge spontaneo – secondo i due – nel cuore degli uomini; ed allora che, come dice Boris ( Larry David), ci si accontenta del “basta che funzioni”. Nel film di Allen però questo “accontentarsi” porta con sé anche una sorta di malinconia che conduce ad una chiusura all’altro – e quindi alla solitudine – e a un intolleranza verso l’altro. E così Boris si chiude nel suo piccolo mondo e nelle sue manie – tra cui quella di cantarsi “tanti auguri Boris” ogni volta che si lava le mani – e si mostra aggressivo e sprezzante con tutti coloro che vi entrano anche solo per poco. Attorno alla solitaria figura si staglia tutta la vicenda che comprende l’entrata in scena di Melody (Evan Rachel Wood), la quale riesce a sopportare Boris solo grazie alla sua ignoranza, che le permette di restare indolente alle continue critiche di lui e anzi di apprezzarlo e quasi venerarlo considerandolo un’intelligenza superiore. Dal canto suo Larry David, tra una critica e un insulto, si affeziona alla ragazza fino a farne il centro della sua vita. Da qui poi l’arrivo della madre di lei, Marietta (Patricia Clarkson) e la narrazione delle sue vicende e problemi con il marito John (Ed Begley jr). Allen invece si riserva la parte dell’ospite invisibile; la somiglianza fisica tra lui e il suo attore protagonista Larry è impressionante, e ciò che gli manca di suo il regista newyorkese lo inserisce trasversalmente : mentre lui è universalmente noto come un “balbettatore”, e quindi come uno che “zoppica” lessicalmente, il povero Larry nel film diviene uno zoppo autentico, risultato di un tentativo di suicidio per depressione. Il film ha un senso umoristico spietato che gioca sul guardare in faccia alla realtà con il sarcasmo tipico del regista newyorkese, sarcasmo che non tradisce mai. Criticato da alcuni secondo cui il film ripropone i temi “già troppo consumati” da Allen, io lo ritengo invece un film di ottima fattura, gradevole e che dona al contempo ottimi spunti riflessivi sull’uomo e sulla vita, sulla solitudine e sulla realtà.
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ilpredicatore
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mercoledì 31 marzo 2010
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basta che sia di woody allen
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Non è un caso se il nuovo film del regista più prolifico d'America sia il migliore degli ultimi anni. Woody torna nella sua New York, una città, una metropoli, il suo universo, dopo una manciata di titoli ambientati in Europa e girati senza mordente, ironia e senza quella ipocondria e quella tipica (auto) analisi che lo avevano reso grande. Ed eccoci qui, proprio a New York, con il suo alter ego Boris, genio fisico, misantropo, misogino, sociopatico e perfino ansiolitico, che guarda tutti dall'alto in basso e che si sveglia la notte con gli attacchi di panico. Il personaggio interpretato da Larry David è impagabile, grande mattatore dell'ultima fatica del regista newyorchese, autentico fanale di tutta la storia, capace di alzarsi e di rivolgersi direttamente allo spettatore con lo scopo di disilluderlo, di rendere le cose come stanno senza giri di parole (“Ve lo dico subito, okay? Io non sono un tipo simpatico”), di deprimerlo, di fargli aprire gli occhi proprio come fa con la ragazza sbandata che finisce per ospitare a casa sua.
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Non è un caso se il nuovo film del regista più prolifico d'America sia il migliore degli ultimi anni. Woody torna nella sua New York, una città, una metropoli, il suo universo, dopo una manciata di titoli ambientati in Europa e girati senza mordente, ironia e senza quella ipocondria e quella tipica (auto) analisi che lo avevano reso grande. Ed eccoci qui, proprio a New York, con il suo alter ego Boris, genio fisico, misantropo, misogino, sociopatico e perfino ansiolitico, che guarda tutti dall'alto in basso e che si sveglia la notte con gli attacchi di panico. Il personaggio interpretato da Larry David è impagabile, grande mattatore dell'ultima fatica del regista newyorchese, autentico fanale di tutta la storia, capace di alzarsi e di rivolgersi direttamente allo spettatore con lo scopo di disilluderlo, di rendere le cose come stanno senza giri di parole (“Ve lo dico subito, okay? Io non sono un tipo simpatico”), di deprimerlo, di fargli aprire gli occhi proprio come fa con la ragazza sbandata che finisce per ospitare a casa sua. Il film nasce proprio dal loro rapporto che, nonostante i due si trovino agli estremi opposti, non dovrebbe avere inizio ma che finisce (causa di forza maggiore) per unirli. Lui, egocentrico e fin troppo intellettuale, lei, ingenua e spesso ai limiti della stupidità, che la renderà succube dei pensieri di lui, ma al contempo dolce, semi innocente e spensierata. A tenere testa Larry David c'è però una scatenata Patricia Clarkson, madre divorziata che riscopre nuovi orizzonti. Woody Allen, attraverso la misantropia del suo protagonista, pone un nuovo giudizio sul mondo, un giudizio pessimista per un mondo sempre più matto e stupido, abitato da esseri umani allo sbando, spesso ultra conservatori e tradizionalisti eppure in continuo mutarsi e sotto sotto progressisti, o personaggi attraversati da una profonda crisi esistenziale. Ma attenzione però, il regista non è così scettico come fa sembrare nell'incipit, perché la possibilità di raggiungere in ogni caso una qualche forma di felicità è spiegata fin dal titolo. Qualunque amore riusciate a dare e ad avere, qualunque felicità riusciate a rubacchiare... basta che funzioni. Tutto il resto è futile. Così come l'ultimo film del regista di Hannah e le sue sorelle. Parte in quarta, decolla, si perde un po' per strada, ma non abbandona mai il suo grande tocco di humour nero e raffinato che rende preziosa questa pellicola. Basta che sia di Woody Allen.
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vittorio
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mercoledì 3 marzo 2010
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carino...ma il vero allen è ancora lontano!!
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Film con un inizio fantastico.....gag esileranti, battute affilate.....e tu sorridente dici...ALLEN E' TORNATO!! Poi pero' il film si perde, diventa banale e anche un po' superficiale....e tu deluso ti ritrovi a dire...IL VERO ALLEN E' ANCORA LONTANO!! Una via di mezzo...tra il super Allen di qualche anno fa e l'Allen degli ultimi tempi....
Complessivamente è un film da vedere!!
In practise....CIIIIIIIP
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liuk©
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giovedì 11 febbraio 2010
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sopravvalutato
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Visto, rivisto e stravisto.. un film assolutamente inutile che non aggiunge nulla alla filmografia del grande Woody.
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brueghel
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giovedì 4 febbraio 2010
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se c'era voody meritava quattro stelle.
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Non capisco perche Voody Allen non è anche protagonista di questo suo film. Sarebbe stato ideale nei panni dell'anziano scienziato in pensione, in oltre sarei stato curioso di vedere chi avrebbe sostituito la voce dello straordinario Oreste Lionello. La storia non è il massimo dell'originalità, ma con Voody sarebbe stao in altro film. Così com'è tre stelle sono più che sufficenti.
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roberta gilmore
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lunedì 25 gennaio 2010
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il nostro solito geniale woody
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woody raggiunge livelli di comicità altissimi in questo film, in cui i dialoghi sono brillanti, la trama forte e divertente... e allo stesso tempo i problemi metafisici (e fisici - come il lavarsi le mani cantando tanti auguri a te per eliminare tutti i germi - e non dimentichiamo che woody è ipocondriaco) di boris lo rendono un film "intellettuale" e interessantissimo... CAPOLAVORO, ma io sono di parte, perchè per me woody è un maestro davvero troppo incompreso nel cinema oggigiorno...
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thejacket
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mercoledì 20 gennaio 2010
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boris gioca negli yankees?!
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La location del film torna ad essere Manhattan,dove ritroviamo una sceneggiatura,che in molti avranno notato,davvero studiata al millimetro. Le battute sono l’affermato marchio di qualità di Woody Allen,battute pungenti,intelligenti,anche banali ma messe tutte al posto,al momento e dette col tono giusto. Basta che funzioni è un film che vuole allo stesso tempo prendersi sul serio e non,dove troviamo un genio della meccanica quantistica come Boris con i suoi momenti di “profonda e alternativa saggezza” alternati da colloqui con il pubblico in sala e dalle riuscite battute di prima,tali battute vengono poste a Boris su un piatto d’argento da un ingenua e leggera Melody.
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La location del film torna ad essere Manhattan,dove ritroviamo una sceneggiatura,che in molti avranno notato,davvero studiata al millimetro. Le battute sono l’affermato marchio di qualità di Woody Allen,battute pungenti,intelligenti,anche banali ma messe tutte al posto,al momento e dette col tono giusto. Basta che funzioni è un film che vuole allo stesso tempo prendersi sul serio e non,dove troviamo un genio della meccanica quantistica come Boris con i suoi momenti di “profonda e alternativa saggezza” alternati da colloqui con il pubblico in sala e dalle riuscite battute di prima,tali battute vengono poste a Boris su un piatto d’argento da un ingenua e leggera Melody.
A dare maggiore colore alla commedia si aggiungo le (ri)scoperte sentimentali e non dei genitori della ragazza.
Boris in tutto questo è il genio incompreso,l’unico con la vera visione ampliata della realtà.
Woody Allen è questo,un genio che mette a disposizione della commedia la sua visione ampliata della realtà,stavolta non alleggerisce però il ruolo del principale protagonista,ma mette in evidenza il suo genio,la sua superiorità dandogli comunque una sua vena sarcarstica anche se il film come dicevo prima un po’ vuole anche prendersi sul serio,vuole mostrare come i non geni,i “vermetti” come li definisce Boris,grazie agli incontri del “destino” possono mutare in tutto e per tutto,vuol farci comprendere che nella vita non bisogna cercare costantemente l’infinito ma accontentarsi di ciò che veramente rende felici anche se è poco,anche se non rispecchia i nostri sogni,basta che funzioni!
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