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nino pell.
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lunedì 21 settembre 2009
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woody allen e la sua filosofia della vita
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Quest'ultima pellicola di Woody Allen non lascia spazio a mezze misure nell'essere giudicata. La filosofia di vita che il regista intende esprimere con questa sua ultima fatica raggiunge un considerevole livello di espressività. Gli uomini ("zombi senza cervello", "primitivi", come ironicamente vengono definiti da Boris, protagonista della storia) sono troppi legati alle aspirazioni, a rincorrere gli evanescenti obiettivi di felicità ed, in genere, a tutto ciò è circoscritto nell'esistenza vitale in quanto tale, per fermarsi a meditare e cogliere il vero senso della vita. Il saggio Boris tutto questo l'ha capito da tempo ed è per questo che la sua visione della vita è profondamente riflessiva, realistica, ma non per questo da definirsi cinica o distaccata.
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Quest'ultima pellicola di Woody Allen non lascia spazio a mezze misure nell'essere giudicata. La filosofia di vita che il regista intende esprimere con questa sua ultima fatica raggiunge un considerevole livello di espressività. Gli uomini ("zombi senza cervello", "primitivi", come ironicamente vengono definiti da Boris, protagonista della storia) sono troppi legati alle aspirazioni, a rincorrere gli evanescenti obiettivi di felicità ed, in genere, a tutto ciò è circoscritto nell'esistenza vitale in quanto tale, per fermarsi a meditare e cogliere il vero senso della vita. Il saggio Boris tutto questo l'ha capito da tempo ed è per questo che la sua visione della vita è profondamente riflessiva, realistica, ma non per questo da definirsi cinica o distaccata. Lui ci appare come una persona particolare ( non sono riuscito a capire bene il perché egli indossasse pantaloni corti sotto maglioni o giubbini), pieno di manie, tic, eppure in grado di cogliere la dimensione dell'animo umano in maniera acuta, sorprendente. Il personaggio di Boris/Allen ironizza sottilmente sui personaggi della storia descrivendone le debolezze umane, le vicissitudini e conseguenti cambiamenti di opinioni, se non addirittura di identità (come nel caso del suocero che scopre ad un certo punto di essere omosessuale) ma poi sembra compenetrarvi se non addirittura giustificarli(Boris stesso a seguito di un ennesimo tentativo di suicidio alla fine trova la sua serenità incontrando finalmente la donna della sua vita) perché pedine di un universo esistenziale che sebbene destinato a finire, va vissuto per la speranza di essere almeno felici (per volontà propria o perché è spesso il destino a determinare gli eventi) purché naturalmente ciò che si riesce ad ottenere...basta che funzioni.
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lisbeth
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domenica 20 settembre 2009
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prendersi in giro…….
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Prendersi in giro, questa è la chiave,Woody ci riesce ancora, e lo fa piazzando a ripetizione lungo tutto il film una sublime autoaffermazione: io sono un genio. E cosa fa un genio? Ha gli anni che bastano per fregarsene di tutti,vive a Manhattan in un appartamento usa e getta,è sciancato da un tentativo malriuscito di suicidio e neanche il secondo andrà a buon fine,quando si lava le mani canta sempre Happy birthday To You e insegna a giocare a scacchi a pagamento per strada a ragazzetti,regolarmente perdendo la pazienza e insultando gli alunni testoni.Questo “genio” che vive per dimostrare la casualità dell’ordine cosmico,rompe la quarta parete e guarda in sala noi spettatori,ci addita agli amici nella prima scena e poi agli ospiti nell’ultima, ma questi non ci vedono, è lui,il “genio”, quello che ha “lo sguardo d’insieme” e solo lui può dirci:guardate cosa succede di totalmente insensato al mondo, basta che uno spermatozoo prenda una strada invece che un’altra e tutto può essere o non essere.
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Prendersi in giro, questa è la chiave,Woody ci riesce ancora, e lo fa piazzando a ripetizione lungo tutto il film una sublime autoaffermazione: io sono un genio. E cosa fa un genio? Ha gli anni che bastano per fregarsene di tutti,vive a Manhattan in un appartamento usa e getta,è sciancato da un tentativo malriuscito di suicidio e neanche il secondo andrà a buon fine,quando si lava le mani canta sempre Happy birthday To You e insegna a giocare a scacchi a pagamento per strada a ragazzetti,regolarmente perdendo la pazienza e insultando gli alunni testoni.Questo “genio” che vive per dimostrare la casualità dell’ordine cosmico,rompe la quarta parete e guarda in sala noi spettatori,ci addita agli amici nella prima scena e poi agli ospiti nell’ultima, ma questi non ci vedono, è lui,il “genio”, quello che ha “lo sguardo d’insieme” e solo lui può dirci:guardate cosa succede di totalmente insensato al mondo, basta che uno spermatozoo prenda una strada invece che un’altra e tutto può essere o non essere.Dunque specchiatevi, gente, e meditate.Il gioco del non sense parte da lì,e il “genio” sposa,o meglio,si fa sposare,da un concentrato di leggerissima nullità e avvenenza che è Mélody(poteva avere altro nome?certo che no), lui che vorrebbe invece starsene in pace da solo.Ma il Fato bussa alla porta con l’attacco della V di Beethoven e scombussola le carte.Si aprono piste impensabili un attimo prima,e una madre morigerata e mollata dal marito per la sua migliore amica si scopre una potente vocazione artistica e sessuale, entrambe felicemente conciliate e appagate;un padre si decide a riconoscere la propria omosessualità e viverla in pace; Mélody la smette di citare,storpiandole, le teorie scientifiche del marito e comincia a sbaciucchiare l’attor giovane, bello e romantico;Boris,il genio,dopo un accurato lavaggio delle mani,lasciato da Mélody si butta dalla finestra e cade su una medium che sposerà, probabilmente,quando lei toglierà i gessi, esito della rovinosa caduta di Boris stesso sulla sua persona passante, per caso, sotto quella finestra.La roulette della vita continuerà a girare, tutto lascia presumerlo,e se quello che è già successo dopo un po’ smetterà, come sempre, di stupirci, a Capodanno staremo tutti insieme appassionatamente a festeggiare l’anno che se n’è andato. E così, ci dice Boris (almeno a chi è rimasto in sala) festeggiamo la morte che si avvicina, e questo non sembra proprio avere nessun senso, a meno che non ci decidiamo tutti a conquistarci “uno sguardo d’insieme”, giocando a scacchi con il caso (o la morte?fa lo stesso, siamo a Manhattan non in Svezia!).Il genio è tutto lì.Basta che funzioni, Whatever Works,il grande Woody torna alla grande e un copione stagionato per trent’anni ora produce un film teatrale dove tutto si tiene in un gioco seducente e solo apparentemente leggero.Sulla scena sentiamo e vediamo sempre lui,la sua psicopatologia della vita quotidiana ci travolge con raffiche di parole che vorremmo trattenere tutte nella memoria.Un film da “leggere”,una sceneggiatura da procurarsi a tutti i costi e tenerla sul comodino.
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korokoro
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domenica 20 settembre 2009
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dopo io e annie, il capolavoro di allen
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Stupendo, credo che originiariamente fosse nato come soggetto teatrale e non cinematografico, ma anche su celluloide lo spettacolo e' assicurato. sembra di leggere proprio una delle sue prime commedie.
VEDETELO.
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bandy
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domenica 20 settembre 2009
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la genialità di woody allen
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Mi sarebbe piaciuto che la parte principale di Boris Yellnikoff fosse stata interpretata
da Woody Allen in persona.Comunque bello lo stesso,una simpatica e divertente commedia,
da non perdere....
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andrea d
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domenica 20 settembre 2009
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ha funzionato, eccome
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Dopo una vacanza europea di quattro film (il sopravvalutato "Match Point", l'inutile "Scoop", il sufficiente "Sogni e Delitti" e il più riuscito "Vicky Cristina Barcelona"), era ora che il regista newyorkese tornasse in patria. Il film comincia con un'esplosione atomica di scrittura cinematografica, un lungo e intelligentissimo monologo sull'esistenza pronunciato dal protagonista interpellando il pubblico in sala, cioè guardando la macchina da presa: una perfetta introduzione metafilmica ci dà, così, il benvenuto, o meglio, il bentornato, nelle strade di New York, nelle sue strade di Manhattan, di cui avevamo sentito la mancanza negli ultimi anni. Un ritorno nel proprio habitat comporta, dunque, una serie di altri ritorni, dal jazz alla psicoanalisi, e così via, nella cornice di quello che è Woody Allen allo stato puro, nella sua espressione più classica e sincera, a dispetto di quei critici che continuano a scambiare per ripetitività una coerenza stilistica (i titoli di testa sempre uguali e l'audio rigorosamente mono) e contenutistica (l'imperterrita ricerca di un significato) che dura ormai da quarant'anni.
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Dopo una vacanza europea di quattro film (il sopravvalutato "Match Point", l'inutile "Scoop", il sufficiente "Sogni e Delitti" e il più riuscito "Vicky Cristina Barcelona"), era ora che il regista newyorkese tornasse in patria. Il film comincia con un'esplosione atomica di scrittura cinematografica, un lungo e intelligentissimo monologo sull'esistenza pronunciato dal protagonista interpellando il pubblico in sala, cioè guardando la macchina da presa: una perfetta introduzione metafilmica ci dà, così, il benvenuto, o meglio, il bentornato, nelle strade di New York, nelle sue strade di Manhattan, di cui avevamo sentito la mancanza negli ultimi anni. Un ritorno nel proprio habitat comporta, dunque, una serie di altri ritorni, dal jazz alla psicoanalisi, e così via, nella cornice di quello che è Woody Allen allo stato puro, nella sua espressione più classica e sincera, a dispetto di quei critici che continuano a scambiare per ripetitività una coerenza stilistica (i titoli di testa sempre uguali e l'audio rigorosamente mono) e contenutistica (l'imperterrita ricerca di un significato) che dura ormai da quarant'anni. A dialogare con noi sulla vita è Boris, un geniale ex professore di fisica sui sessanta che ora vive solo tra le sue nevrosi e i suoi dilemmi esistenziali, e che rimarrà scosso dall'incontro, avvenuto per una coincidenza dovuta al caso (elemento determinate nella poetica alleniana), con Melody, una ragazza del sud degli Stati Uniti, deliziosamente ingenua e di scarsa erudizione, la quale sarà ospitata in casa sua, portando con sé un grosso bagaglio di credenze, luoghi comuni e superstizioni (per il principio secondo cui la religiosità e la superstizione sono inversamente proporzionali alla cultura). L'unione tra i due, costretti alla conoscenza reciproca da una permanenza prolungata della ragazza ospite, sembra inconcepibile, eppure Boris finirà per esserne attratto e sposarla, pur di trovare un barlume di senso da dare a una vita che di per sé non ne ha, a meno che non si voglia credere in consolatori disegni provvidenziali. Boris va avanti nel suo incerto cammino nell'indifferenza dell'universo attaccandosi a qualsiasi cosa funzioni ("whatever works", appunto), anche quando a scuotere la situazione arrivano i genitori di Melody, ognuno di loro con le proprie peculiarità opposte a quelle del fisico (sopra tutte la fede in Dio e nella sua provvidenza, ricollegabile al credere nel destino, che è l'opposto del sentirsi in preda al caso e alla vanità dell'essere). Sorprendente è la solita leggerezza con la quale il regista riesce ad affrontare tematiche filosofiche di grande spessore, tematiche che, come ammette lo stesso Boris/Allen nel corso della pellicola, fanno visita solo nei pensieri di chi ha una grande mente, che permette di avere la cosiddetta "visione di insieme", un'inquadratura totale che prescinde dai punti di vista, dalle ideologie, dalle confessioni, e dalle convinzioni soggettive che noi passeggeri abitanti del pianeta ci siamo appositamente costruiti, e che rende consapevoli della incredibile piccolezza nei confronti del resto e di tutto. E allora non rimane che riuscire a cogliere quell'attimo di piacere, di gioia, in qualunque situazione ci venga offerta dall'andamento casuale delle cose, anche adeguandosi alla combinazione più paradossale, purché funzioni. Aver passato novanta minuti nella visione di questo film, ad esempio, è stato un ottimo modo per afferrare quel tipo di felicità. E ha funzionato, eccome.
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dovic86
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domenica 20 settembre 2009
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zero mostel
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Una precisazione: la sceneggiatura ha più di 30 anni, visto che l'attore Zero Mostel, che Allen aveva pensato nelle vesti del protagonista, è morto nel 1977 e non nel 1997 come riportato nella recensione.
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cicciox
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domenica 20 settembre 2009
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finalmente ..
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allen è tornato a fare film come 20 anni fa.
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astarot
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domenica 20 settembre 2009
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recensione moscia...per un film geniale
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L'entusiasmo non dev'essere proprio il punto forte di questo modesto recensore, che a giudicare dal pezzo scritto non deve essersi nemmeno troppo divertito nel vedere questa brillante commedia di "messer Woody". Si stenta appena ad arrivare a metà pagina, nonostante le modeste intenzioni e la sufficiente precisione negli aspetti biografici nella trattazione del soggetto. Film da 8 e mezzo, recensione...da 4!
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andrea d
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domenica 20 settembre 2009
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ha funzionato, eccome
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Dopo una vacanza europea di quattro film (il sopravvalutato "Match Point", l'inutile "Scoop", il sufficiente "Sogni e Delitti" e il più riuscito "Vicky Cristina Barcelona"), era ora che il regista newyorkese tornasse in patria. Il film comincia con un'esplosione atomica di scrittura cinematografica, un lungo e intelligentissimo monologo sull'esistenza pronunciato dal protagonista interpellando il pubblico in sala, cioè guardando la macchina da presa: una perfetta introduzione metafilmica ci dà, così, il benvenuto, o meglio, il bentornato, nelle strade di New York, nelle sue strade di Manhattan, di cui avevamo sentito la mancanza negli ultimi anni. Un ritorno nel proprio habitat comporta, dunque, una serie di altri ritorni, dal jazz alla psicoanalisi, e così via, nella cornice di quello che è Woody Allen allo stato puro, nella sua espressione più classica e sincera, a dispetto di quei critici che continuano a scambiare per ripetitività una coerenza stilistica (i titoli di testa sempre uguali e l'audio rigorosamente mono) e contenutistica (l'imperterrita ricerca di un significato) che dura ormai da quarant'anni.
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Dopo una vacanza europea di quattro film (il sopravvalutato "Match Point", l'inutile "Scoop", il sufficiente "Sogni e Delitti" e il più riuscito "Vicky Cristina Barcelona"), era ora che il regista newyorkese tornasse in patria. Il film comincia con un'esplosione atomica di scrittura cinematografica, un lungo e intelligentissimo monologo sull'esistenza pronunciato dal protagonista interpellando il pubblico in sala, cioè guardando la macchina da presa: una perfetta introduzione metafilmica ci dà, così, il benvenuto, o meglio, il bentornato, nelle strade di New York, nelle sue strade di Manhattan, di cui avevamo sentito la mancanza negli ultimi anni. Un ritorno nel proprio habitat comporta, dunque, una serie di altri ritorni, dal jazz alla psicoanalisi, e così via, nella cornice di quello che è Woody Allen allo stato puro, nella sua espressione più classica e sincera, a dispetto di quei critici che continuano a scambiare per ripetitività una coerenza stilistica (i titoli di testa sempre uguali e l'audio rigorosamente mono) e contenutistica (l'imperterrita ricerca di un significato) che dura ormai da quarant'anni. A dialogare con noi sulla vita è Boris, un geniale ex professore di fisica sui sessanta che ora vive solo tra le sue nevrosi e i suoi dilemmi esistenziali, e che rimarrà scosso dall'incontro, avvenuto per una coincidenza dovuta al caso (elemento determinate nella poetica alleniana), con Melody, una ragazza del sud degli Stati Uniti, deliziosamente ingenua e di scarsa erudizione, la quale sarà ospitata in casa sua, portando con sé un grosso bagaglio di credenze, luoghi comuni e superstizioni (per il principio secondo cui la religiosità e la superstizione sono inversamente proporzionali alla cultura). L'unione tra i due, costretti alla conoscenza reciproca da una permanenza prolungata della ragazza ospite, sembra inconcepibile, eppure Boris finirà per esserne attratto e sposarla, pur di trovare un barlume di senso da dare a una vita che di per sé non ne ha, a meno che non si voglia credere in consolatori disegni provvidenziali. Boris va avanti nel suo incerto cammino nell'indifferenza dell'universo attaccandosi a qualsiasi cosa funzioni ("whatever works", appunto), anche quando a scuotere la situazione arrivano i genitori di Melody, ognuno di loro con le proprie peculiarità opposte a quelle del fisico (sopra tutte la fede in Dio e nella sua provvidenza, ricollegabile al credere nel destino, che è l'opposto del sentirsi in preda al caso e alla vanità dell'essere). Sorprendente è la solita leggerezza con la quale il regista riesce ad affrontare tematiche filosofiche di grande spessore, tematiche che, come ammette lo stesso Boris/Allen nel corso della pellicola, fanno visita solo nei pensieri di chi ha una grande mente, che permette di avere la cosiddetta "visione di insieme", un'inquadratura totale che prescinde dai punti di vista, dalle ideologie, dalle confessioni, e dalle convinzioni soggettive che noi passeggeri abitanti del pianeta ci siamo appositamente costruiti, e che rende consapevoli della incredibile piccolezza nei confronti del resto e di tutto. E allora non rimane che riuscire a cogliere quell'attimo di piacere, di gioia, in qualunque situazione ci venga offerta dall'andamento casuale delle cose, anche adeguandosi alla combinazione più paradossale, purché funzioni. Aver passato novanta minuti nella visione di questo film, ad esempio, è stato un ottimo modo per afferrare quel tipo di felicità. E ha funzionato, eccome.
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paapla
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sabato 19 settembre 2009
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un giorno x caso funziona
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Woody è ri-tornato sotto il Ponte di Brooklyn dopo anni di location in Europa, ma il cielo di Manhattan rimane grigio. Larry David, comico ebreo, nato a Brooklyn alter ego di Woody Allen è bravo e nevrotico e non fa rimpiangere l’originale, con il solito humour e sembra funzionare!
Perché un isterico e misantropo, ex professore universitario di fisica, ex marito, zoppo, debba incrociare una magnifica e deliziosa ragazza (Evan Rachel Wood) in fuga da casa è un enigma che solo il CASO potrebbe risolvere.
120 minuti di commedia brillante, un saggio mix di emozioni già percepite più qualcosa di nuovo che sembra funzionare.
Ci manca Oreste Lionello perché non era solo la voce di Woody, era Leonard Zelig (Woody Allen).
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Woody è ri-tornato sotto il Ponte di Brooklyn dopo anni di location in Europa, ma il cielo di Manhattan rimane grigio. Larry David, comico ebreo, nato a Brooklyn alter ego di Woody Allen è bravo e nevrotico e non fa rimpiangere l’originale, con il solito humour e sembra funzionare!
Perché un isterico e misantropo, ex professore universitario di fisica, ex marito, zoppo, debba incrociare una magnifica e deliziosa ragazza (Evan Rachel Wood) in fuga da casa è un enigma che solo il CASO potrebbe risolvere.
120 minuti di commedia brillante, un saggio mix di emozioni già percepite più qualcosa di nuovo che sembra funzionare.
Ci manca Oreste Lionello perché non era solo la voce di Woody, era Leonard Zelig (Woody Allen).
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[+] italian drinking water
(di paapla)
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