Indiana Jones e il regno del teschio di cristallo |
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Un film di Steven Spielberg.
Con Harrison Ford, Karen Allen, Cate Blanchett, Shia LaBeouf, John Hurt.
continua»
Titolo originale Indiana Jones and the Kingdom of the Crystal Skull.
Avventura,
Ratings: Kids+13,
durata 125 min.
- USA 2008.
- Universal Pictures
uscita venerdì 23 maggio 2008.
MYMONETRO
Indiana Jones e il regno del teschio di cristallo ![]() ![]() ![]() ![]() ![]() |
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Chi salverà i personaggi dai propri creatori?
di Rudy GonzoFeedback: 0 |
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lunedì 26 maggio 2008 | ||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||
Un Personaggio è un Personaggio. A volte entra nel mito, e ci resta. Cappellaccio, frusta, giubbotto, colt, barba sfatta. Ecco l’Icona. La materializzazione dei sogni dei bambini che ancora vivono in noi, e che ogni tanto fanno capolino e ci portano lontano: mondi perduti, tesori sepolti, pericoli, nemici, maledizioni… Mito, sogno, fantasia. Indiana Jones, in due parole. Ma i miti si possono anche demolire, svilire, sprecare, involgarire. C’è un signore, che si chiama George Lucas, che ha contribuito anni fa a crearne tanti, di miti moderni, compreso questo, e che ormai è malato. Seriamente malato. Ha un’industria di effetti speciali che si chiama ILM, Industrial Light and Magic, dal nome suggestivo e fantastico, che negli anni è diventata talmente potente e sofisticata nel fare il suo lavoro - riuscire a rendere il falso più vero del vero - da aver dato assuefazione al suo creatore, proprietario e leader. A volte, vedendo i risultati, viene da chiedersi se lo stesso Lucas non sia egli medesimo una creatura in digitale, un ologramma prodotto dalla sua ILM per arrivare a conquistare il mondo (della fantasia). Forse, in un sotterraneo dello Skywalker Ranch, in una vasca illuminata da un neon violastro, pieno di sonde, sensori, cavi e tubi che gli entrano in ogni orifizio, giace in sospensione il George Lucas che noi tutti ricordiamo per aver costruito mondi e creato miti e mitologie, Star Wars in testa. Ridotto a un vegetale, un monitor che ne traccia l’andamento vitale emettendo regolari bip, il corpo molle che sembra librarsi in volo immerso in un liquido amniotico livido e innaturale. Come si spiega altrimenti che colui che partì addirittura dal Paradigma dei Paradigmi della narrazione per costruire la sceneggiatura del primo Star Wars (1977), tanto da farne a sua volta un paradigma usato nei corsi di scrittura, si sia ridotto a credere che la storia di un film si riduca allo schema di un platform neanche troppo divertente e che ogni buco e progressione narrativa possa essere risolta con lunghi, estenuanti, inseguimenti con duelli in corsa? Sarebbe bello leggere – e rimpiangere – la sceneggiatura di Derebont, rifituata da Lucas, per questo quarto capitolo delle avventure di Henry Jones Junior. Derebont, che avrà pure tanti difetti, è uno dei pochi sceneggiatori ad essere riuscito a migliorare un già bellissimo racconto di King (cfr. "Le ali della libertà" e il racconto da cui è tratto, "Rita Hayworth e la redenzione di Shawshank"), cosa avrà mai potuto scrivere per essere cacciato da Lucas? Troppe poche incongruenze? Poche sequenze estenuanti di inseguimento fine a se stesso? Troppa suspense ben costruita? Troppa ironia? Personaggi troppo credibili e di spessore? Intreccio narrativo troppo accativante e coinvolgente? Se questi erano i difetti riscontrati nel rescindere il contratto, il risultato l’abbiamo visto. C’era un bellissimo episodio di South Park, in cui si cercava di salvare i film dai propri registi, (guarda caso proprio Spielberg e Lucas), episodio che reagiva ai troppi ritocchi digitali applicati a vecchi film mitici, uno per tutti: le pistole degli agenti della CIA trasformate in walky-talky nella versione di E.T. rieditata da poco. Ecco: salviamo la nostra fantasia da chi ci ha aiutato a svilupparla, salviamo i personaggi dai loro autori ormai non più all’altezza, salviamo il cinema dai videogiochi, salviamo il bambino che c’è in noi dalla playstationizzazione dell’immaginario.
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