Una storia, allucinante, da Oscar
di Irene Bignardi La Repubblica
L’ambientazione (o anche la vicenda) è la stessa. Nel film di Rithy Pan S21, la macchina di morte dei Khmer Rossi ci trovavamo di fronte al reale, qui a una sua nobile ricostruzione (anche molto tempestiva, visto che il film di Joffé è dei 1984, pochi anni dopo i fatti). La storia è quella iniziata tragicamente nella Cambogia del 1975, quando gli americani stavano lasciando il Vietnam e nel Paese confinante esplose la rivoluzione sanguinaria dei Khmer rossi. Rithy Pan, cambogiano, lui stesso vittima dell'onda di follia che si è abbattuta sulla Cambogia in quegli anni, la racconta trent'anni dopo in forma di documentario. Roland Joffë, al suo debutto nel cinema sotto l'ombrello protettivo di quell'abile produttore che è stato David Putnam, la ricostruisce in due tempi: una storia di giornalismo di guerra che documenta efficacemente te tensioni, le aspirazioni, il senso del dovere e del sacrificio, ma anche il senso dello scoop di motti reporter-che qui sono Sam Waterston, Jlohn Malkovich, Julian Sands, Haing S. Ngor e una storia allucinatamente documentaria sui campi di sterminio dove i Khmer rossi uccisero un'intera generazione e stroncarono la loro stessa nazione.
La ricostruzione avviene attraverso le memorie di Sidney Shanberg, un giornalista dei New York Times, e, nella finzione cinematografica, attraverso i ricordi di Dith Pran, l'interprete di Waterston, a cui dà corpo Haing S. Ngor, un medico cambogiano che finì in uno dei terribili «killing fields» dei Khmer rossi, e che qui rivive la sua storia: la sua stupefacente interpretazione di un personaggio così simile, per destino, a lui stesso, è una delle grandi qualità del film, e non a caso gli è valso uno dei tre Oscar che Urla del silenzio si è conquistati. Tra gli extra una storia delle tradizioni e della cultura cambogiana. Qualcosa di più forte avrebbe aiutato.
Da Il Venerdì di Repubblica, 27 luglio 2007
di Irene Bignardi, 27 luglio 2007