Paolo D'Agostini
La Repubblica
Sergio Rubini è un uomo pieno di sorprese. E del fascino della sua sensibilità, della sua intelligenza, fanno parte anche le discontinuità, gli alti e bassi del suo itinerario (ricordate La bionda?). Purtroppo è incappato in pieno nella caduta dell'impero Cecchi Gori e questo suo nuovo film - L'anima gemella - ne ha risentito. Gestazione faticosa, sparizione dopo essere stato completato (mal comune a Paolo Virzì, a Stefano Incerti), uscita ora che ormai non ci si pensava più.
"Suo" dicevamo: è un film molto personale, è suo come regista, come attore in un ruolo apparentemente collaterale e in realtà centralissimo (anche perché non ha partner alla stessa altezza), come cosceneggiatore in compagnia di Domenico Starnone. Lo scrittore-insegnante-giornalista napoletano, scelto da Rubini come sodale di fiducia, è oggi una delle più interessanti figure fiancheggiatrici del cinema provenienti da altre sponde espressive e da altre esperienze, tra le personalità che stanno dando e possono dare molto al rinnovamento della scrittura cinematografica in Italia.
Questa storia affonda le radici nell'autobiografia infantile dell'autore, nella sua Puglia. O piuttosto nella sua idea infantile, magica e favolosa della sua Puglia. Infatti vi si respira, sullo schermo (perché è un film molto visivo e di visioni), un'aria onirica e sognante. Vogliamo dire di realismo magico? Diciamolo, perché in fondo Rubini ha immaginato una personale Macondo della provincia barese.
Si tratta a tutti gli effetti di una "fattura". Un ragazzo (Michele Venitucci) e una ragazza (Violante Placido) si amano, anche un'altra ragazza - ricca e invidiosa: è Valentina Cervi - vuole lo stesso ragazzo ed è disposta a tutto per averlo. Si affida pertanto alle arti, maldigerite e malgestite, del locale barbiere Angelantonio (Rubini) figlio di fattucchiera. Non è che importi moltissimo la piega che le cose prendono. È un film di suggestioni, di atmosfera, di luci e di profumi. E la sfida di Rubini è in parte riuscita in parte no, ma è generosa e ne valeva la pena.
Da La Repubblica, 12 aprile 2003
di Paolo D'Agostini, 12 aprile 2003