Il vento ci porterà via

Un film di Abbas Kiarostami. Con Behzad Dourani Titolo originale Le vent nous emportera. Drammatico, durata 118 min. - Francia 1999. MYMONETRO Il vento ci porterà via * * 1/2 - - valutazione media: 2,86 su -1 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
   
   
   

tre film una sola idea Valutazione 4 stelle su cinque

di carloalberto


Feedback: 51018 | altri commenti e recensioni di carloalberto
martedì 9 novembre 2021

 Lo schema è quello di altri due film di Kiarostami. Il protagonista ha un obiettivo da raggiungere. La restituzione di un quaderno al compagno di banco, in Dov’è la casa del mio amico del 1987. La ricerca di un uomo che ricopra le sue spoglie dopo il suicidio, nel Il sapore della ciliegia del 1997. Nel Il vento ci porterà via, fare un reportage fotografico su un particolare rituale funebre in un remoto villaggio curdo.
In ognuno c’è un tragitto da compiere, sempre uguale,  ripercorso più volte, fino all’incontro con la figura del saggio. Nei primi due film, rispettivamente, impersonati dal vecchio falegname e dal tassidermista, nel terzo, dal dottore del paese.
Il vecchio saggio nell’offrire il suo aiuto al protagonista perché raggiunga il suo scopo materiale, gli mostra il mondo in una prospettiva diversa, rompe l’incantesimo liberandolo dal suo vagare in un labirinto senza uscita, metafora dei loop mentali che imprigionano l’anima in circoli viziosi, apre allo sguardo lo straordinario spettacolo che la natura offre spontaneamente, invita a godere delle cose semplici della vita, insegna, con il suo stesso esempio, l’amore del lavoro inteso come servizio reso alla comunità.
In ognuno dei tre film è coprotagonista la poesia, unica chiave di accesso dello spirito al mistero della Natura. Dov’è la Dimora dell’Amico di Sohrab Sepehri ispira il titolo del film dell’87. Versi anonimi di una poesia turca sono recitati dal tassidermista nel Il sapore della ciliegia. Una poesia di Forough Farrokhzad dà il titolo a quest’opera del ’99; i suoi versi risuonano suggestivamente in una grotta, dove una ragazza munge una vacca al buio, evocando, alla luce fioca di una lanterna, lo spavento e l’estasi di fronte alla bellezza della natura, al cui cospetto l’esistenza umana rimane nuda nella sua essenza di spettatore passeggero, come lo è stato Kiarostami, come noi, che assistiamo ai suoi film, mentre la vita scorre imperturbabile altrove.
In Kiarostami tutto si muove incessantemente. La cinepresa segue l’auto nel suo girovagare da un punto all’altro del paesaggio. In ogni inquadratura c’è movimento, le spighe che ondeggiano al vento, le donne affaccendate nei lavori domestici, i bambini che giocano, i cani che si rincorrono azzuffandosi. Il movimento è presente persino nell’azione non vista di un uomo che scava una buca.
Il protagonista appare scollegato da un passato di cui non v’è traccia e la sua storia è senza uno sviluppo futuro. Il girato riguarda la parte residuale della realtà, il presente, in sé per sé vuoto di significato, pregno, tuttavia, di segni, di immagini colte nella essenza vitale del movimento. Tutto questo movimento è la vita stessa nel suo accadere, come quello dello scarabeo stercorario che spinge la sua palla di cibo o la tartaruga capovolta che si raddrizza. Naturale nell’animale, il movimento è nevrotico nell’uomo.
E’ un accadere privo di senso a cui donano senso emblematicamente le parole illuminanti del vecchio saggio ed i versi di una poesia. Arte e tradizione in Kiarostami assumono la medesima funzione salvifica e liberatoria per l’uomo moderno, gettato nel mondo in un esistenza svuotata di significato, senz’altro scopo se non raggiungere in modo complicato mete insignificanti, dimentico della bellezza del viaggio in cui consiste la vita.
 

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