Pensando all'intera carriera del cineasta, ciò che dal mio umile punto di vista infastidisce spesso, è il virtuosismo dal lato della regia, il voler far sentire a forza la propria presenza dietro la macchina da presa, l'esercizio di stile (freddo?) più o meno gratuito, ora aggraziato (la dolcezza e la delicatezza delle immagini e del bianco e nero in Toro scatenato in opposizione alla brutalità caratteriale del protagonista), ora caricato e apertamente solipsista (la visione volutamente "accecante", "assoluta" di Taxi Driver, atta ad incidere con mano pesante e indelebilmente le impressioni sulla metropoli nella testa dello spettatore, ma talmente voluta e sovraccarica di stimoli cromatici luminosi da risultare poco convincente e spesso tediosa), ora ossessionato e disturbante (la mobilità ininterrotta della macchina da presa ma anche i tagli di montaggio secchi e inaspettati, la narrazione per accumulazione fino ad esplosione ritardata (Ghezzi) in Quei bravi ragazzi); un esercizio di stile che viene ad interporsi come filtro alla vicenda da raccontare, allontanando la concretezza della storia e delle emozioni dei personaggi o comunque rendendone più difficile l'assimilazione. Mi sarebbe ad esempio piaciuto che la regia in Taxi Driver puntasse più verso il basso, rendendoci più vicino l'umile ed alienato protagonista, anzi che perdersi (e perderlo) vezzosamente nel tratteggiare l'inferno metropolitano.
Lo stile ancora grezzo e incompiuto di Mean Streets volto a cogliere attimo dopo attimo i momenti, il calore e la fisicità dei personaggi (l'impressione a pelle è quella dell'improvvisazione, anche se sicuramente dietro ci sarà stato un lavoro formale pensato, che però qui per fortuna non viene fatto pesare) mi sembra molto lontano dall'artificiosità delle opere successive più celebrate. Anche in Casinò il taglio documentaristico, volutamente gelido e crudele, rende l'elaborazione formale (superba) e il relativo distacco più giustificati
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