Taxi Driver

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Un film di Martin Scorsese. Con Jodie Foster, Robert De Niro, Cybill Shepherd, Peter Boyle, Harvey Keitel.
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Titolo originale Taxi Driver. Drammatico, Ratings: Kids+16, durata 113 min. - USA 1976. MYMONETRO Taxi Driver * * * * - valutazione media: 4,14 su -1 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
   
   
   

Grande virata nel precipizio della buia solitudine Valutazione 5 stelle su cinque

di Great Steven


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martedì 5 gennaio 2016

TAXI DRIVER (USA, 1976) diretto da MARTIN SCORSESE. Interpretato da ROBERT DE NIRO, JODIE FOSTER, HARVEY KEITEL, CYBILL SHEPHERD, PETER BOYLE, ALBERT BROOKS, LEONARD HARRIS, MARTIN SCORSESE, STEVEN PRINCE, MURRAY MOSTEN, HARRY NORTHUP, JOE SPINELL
Per rimediare all’insonnia, il reduce dal Vietnam Travis Bickle decide di lavorare come tassista di notte, scarrozzando passeggeri di tutti i tipi (prevalentemente ladri, meretrici, scippatori, spacciatori di droga, mendicanti e altri poveri derelitti) nella Manhattan pericolosa, sporca e virulenta dei quartieri più bui e desolati della metropoli newyorkese. Fin da subito, lo spettatore ha chiaro in testa che Travis è uno psicotico disadattato, le cui uniche passioni sono la pornografia e un’ossessione viva per la violenza, desideroso di un riscatto e sognatore ad occhi aperti per un mondo più giusto dove i suoi confusi desideri politici vagamente anarcoidi possano trovare una sana applicazione. Nel corso dei suoi viaggi notturni, l’uomo si finge sostenitore di Charles Palantine, candidato democratico alle primarie che in un secondo momento tenta senza successo di assassinare, invita una giornalista prima a pranzo in una tavola calda e poi in un cinema a luci rosse, ottenendo una secca risposta di rifiuto e disgusto, fa amicizia con colleghi puttanieri e beoni, acquista alcune pistole di diverso calibro per trasformarsi in una sorta di difensore misconosciuto della giustizia e, cosa più importante, salva una baby prostituta tredicenne dalle grinfie di un magnaccia sfruttatore e malvagio. Uno dei più inquietanti, intensi e paranoidi thriller che la fucina cinematografica USA (uscita dal conflitto vietnamita, impoverita dallo scandalo del Watergate e sulla scia della conclusione dei movimenti hippies e studenteschi) degli anni 1970 abbia saputo sfornare senza forzare i canoni del genere ma anche rinnovandolo profondamente con un’attenzione introspettiva così precisa e forse leggermente esagerata che però gli fece soltanto un bene dell’anima. Scorsese si consacra definitivamente con Taxi Driver come un autore che ha saputo celebrare il culto della sua personalità facendosi un nome ben riconoscibile e ritagliandosi un posto d’onore nell’Olimpo dei registi d’oltreoceano capaci di districarsi fra tutte le tipologie filmiche prediligendone però alcune. E nel caso del buon vecchio Martin la predilezione va decisamente a favore delle commedie drammatiche o, come nel film in questione, del romanzo avventuroso moderno e metropolitano avente come protagonista uno spaventoso, tormentato, irritante e plurisfaccettato antieroe, la cui sociopatia si riflette nelle sue azioni, le quali rimangono sempre con l’inseguire la giustizia e operare per il suo mantenimento, ma al tempo stesso se ne allontanano per l’approccio cattivo, egoistico e tagliente che contraddistingue i suoi gesti dettati da impulsi primordiali, quasi animaleschi. Sono diventate celebri e praticamente da antologia la sequenza dello specchio, dove Travis mima un attacco con arma da fuoco parlando con sé stesso, e l’esplosione della violenza nel finale, dove la tensione accumulata nei cento minuti precedenti di durata si dipana e scoppia diabolicamente per mostrare il significato intimamente dirompente e dissacrante di un’opera che annovera fra i suoi meriti principali il fatto di aver spiegato brillantemente il bisogno dell’illegalità per la presenza della giustizia, nonché la povertà disperata non tanto a livello materiale e pratico, quanto sul piano morale e interiore, di un gruppo di perdenti che soffrono, sgobbano e piangono intrappolati in un mare di cemento che nemmeno la pioggia dal cielo, tanto elogiata da Travis nelle scene introduttive, riesce a ripulire dalla sozzura che sembra attaccata ad esso come due animali in simbiosi. Oltre ad uno straordinario De Niro che, forse più qui che ne Il padrino – Parte II, avrebbe meritato l’Oscar (ma i giudizi sulle due interpretazioni sono naturalmente opinabili e aperti ad ogni sorta di disquisizione), si distinguono: una giovanissima J. Foster agli esordi nei panni di Iris, la ragazzina costretta alla prostituzione da un laido e crudele protettore, un H. Keitel anch’egli alle prime armi in un ruolo così inconsueto per le sue corde abituali e che infatti mai più gli capitò di rivestire; una C. Shepherd graziosa e spiritosa nel ruolo della reporter che vuole provare nuove esperienze amorose e divertirsi maliziosamente alle spalle degli uomini; P. Boyle, che fa con brio e autoironia Wizard, l’impiegato della sede giornalistica tutto sommato innocuo e che si dà arie spavalde di sicurezza di sé; e infine anche A. Brooks nelle vesti del becero e ruvido Tom, tassista amico di Travis e quello che più si prende a cuore i suoi malumori e le sue irrequietudini. Scritto da un Paul Schrader più in forma che mai, in forma nel senso che traduce in una scrittura limpida e cristallina la sua viscerale veracità tipicamente statunitense e il suo humour caustico da buontempone sarcastico e ragionevole. Ultima colonna sonora del maestro Bernard Herrmann (1911-1975), scomparso pochi mesi prima dell’uscita della pellicola, e ancora una volta abbiamo a che fare con musiche cupe e truci che si amalgamano perfettamente al clima e alla trama dell’opera. Il compositore viene sensibilmente ricordato nei titoli di coda.  

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