
Film d'elezione di Asghar Fahradi per il festival Middle East Now. Il regista ne inserì un estratto anche nel suo film Il cliente.
di Carolina Mancini
Gaav (The Cow) di Dariush Mehrjui è un film del 1969, ispirato a un racconto
dello scrittore iraniano Gholam-Hossein Saedi, anche sceneggiatore del film.
Vincitore del premio FIPRESCI alla Mostra di Venezia del 1971, è considerato
l'incipit della New Wave del cinema iraniano, ed è il film d'elezione di Asghar
Farhadi, per la 'cart blanche' rilasciatagli dal festival Middle East Now, che lo
celebra con un Focus. Non a caso Farhadi ne ha inserito anche un estratto in uno
dei film che gli ha valso l'Oscar, Il cliente.
Gaav è la storia di un uomo, Hassan, dell'amore viscerale per la sua vacca, l'unica
vacca del piccolo villaggio rurale in cui vive, e della tragedia che la scomparsa di
questo animale comporta per lui. Una perdita che lo conduce alla pazzia e alla morte.
Hassan è il protagonista del film, ma dobbiamo attendere qualche minuto per vederlo
in scena.
Le prime inquadrature sono per gli abitanti del villaggio, volti di uomini anziani, donne avvolte dal chador, sedute di fronte alle case o ai covoni di fieno, giovani e bambini: tutti guardano qualcosa. O meglio, qualcuno.
Lo 'scemo' del villaggio che i ragazzini si divertono a torturare: lo immobilizzano con campanelli appesi al collo, barattoli vuoti legati alle gambe; gli dipingono la faccia di nero, lo rincorrono finché è costretto a gettarsi in acqua. Già questi primi minuti introduttivi contengono molto di quello che questo film racconterà.
Hassan viene evocato prima di entrare in scena: una donna vorrebbe mungere del
latte ma lui non c'è, è fuori a far pascolare la sua mucca, l'unica mucca del villaggio,
gravida, per altro. E' infatti in un altrove bucolico che finalmente vediamo Hassan (il
bravissimo Ezzatolah Entezami), inseparabile dalla sua vacca, come ci ha anticipato
la suggestiva grafica dei titoli d'apertura.
Il suo rapporto simbiotico con l'animale è mimato dalla macchina da presa, che si appiccica ai due in un montaggio che cresce in ritmo, restituendoci tutta la gioia dell'uomo che si bagna con la sua mucca, l'accarezza, beve l'acqua che lei non vuol bere, la asciuga con la sua giacca. Poi d'improvviso, l'idillio è spezzato da un controcampo da western, sapientemente sottolineato dalla musica che insinua il pericolo, materializzato all'orizzonte da tre figure losche. La giacca nera scivola sul volto di Hassan, che si rabbuia: un presagio oscuro incombe su di lui e su tutta la sua gente. Poco dopo sapremo che i tre sono i temuti Bolouris, "ladri di bestiame non curanti di Dio", li definiscono al villaggio, dove invece è la mano divina a governare la sorte, e a ispirare i riti in cui compare spesso la mano d Fatima, rimedio infallibile contro il malocchio nell'Islam popolare.
Quella notte Hassan decide di dormire con la sua mucca nella stalla, per vegliare su
di lei. Ma è l'indomani, mentre lui non c'è, che la tragedia si consuma. Noi la scopriamo assieme agli abitanti del villaggio, richiamati dal pianto straziato della moglie di Hassan, che ha trovato l'animale morto nella stalla. Tutti si stringono attorno a lei, si fanno carico del suo problema, che è anche il loro. Cosa fare ora? Cosa dire ad
Hassan? Come reagirà lui? E ancora, il protagonista vive nella sua stessa assenza.
La suspense è creata: tutti noi sentiamo, a questo punto, il valore inestimabile di
quella vacca, la fatalità della sua perdita. E aspettiamo Hassan, patendo per lui.