
In streaming su MYmovies ONE il film del regista marocchino Kamal Lazraq, vincitore del Premio della Giuria della sezione Un Certain Regard. Un'opera prima sorprendente che sembra scritta dai fratelli Coen. ACCEDI | GUARDA ORA IL FILM
di Simone Granata
Il genere “crime” può assumere diversi volti, dal giallo al thriller, dal poliziesco al gangster movie, dal noir alla commedia. In rari casi, ciò avviene anche all’interno dello stesso film e in maniera sottile e quasi sotterranea, portando ad esiti sorprendenti e notevoli, come in questo lungometraggio d’esordio del regista marocchino Kamal Lazraq (nato a Casablanca nel 1984), Premio della Giuria della sezione Un Certain Regard al Festival di Cannes nel 2023.
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La storia di Noir Casablanca è semplice e si apre con un combattimento tra cani al termine del quale il boss Dib vuole vendicarsi della sconfitta e dell’umiliazione subite, e allora incarica il piccolo criminale Hassan di rapire a scopo intimidatorio uno degli scagnozzi del capobanda rivale. Hassan coinvolge il figlio Issam — il quale vive di espedienti come il padre — in quello che considera un lavoro relativamente tranquillo, ma il piano non va come previsto: l’uomo sequestrato dai due viene trasportato nel bagagliaio della macchina con un cappello nero a coprirgli la testa, ma arrivati a destinazione si scopre che… è morto soffocato.
Su tutte le furie, Dib ordina ad Hassan di sbarazzarsi del corpo della vittima senza lasciare tracce ma ogni tentativo della coppia padre-figlio sarà via via intralciato da vari ostacoli: un pozzo pieno di sassi e dunque inadatto allo scopo, un anziano ubriaco specializzato nell’occultamento di oggetti e carcasse in mare che finirà invece per annegare egli stesso, un predatore sessuale pronto ad approfittare della situazione, e poi ancora il doppiogiochismo di altri malavitosi.
Come in una sceneggiatura che potrebbe essere scritta dai fratelli Coen, così Hassan e Issam scopriranno a loro spese che è molto più facile uccidere — anche per sbaglio — una persona che liberarsi del cadavere.
E già in questo ribaltamento di schemi e luoghi comuni della realtà e del cinema è insita l’ironia nera che pervade tutto il film, avvitato attorno alla salma di un uomo ucciso senza ragione (esattamente come il cane morto nel combattimento iniziale) che prima deve essere lavata e purificata da Hassan con l’aiuto della madre (unica figura femminile che compare lungo la narrazione) per scongiurare maledizioni e sciagure connesse, e poi dovrebbe essere bruciata in una fornace per farne sparire i resti.
L’umorismo feroce è sempre sottotraccia, riuscendo a garantire un equilibrio affascinante e spiazzante tra toni e generi, che mescola la tensione del thriller — senza che la violenza venga mai mostrata ma solo temuta o al massimo lasciata fuori campo — e il dramma sociale nel contesto di povertà e degrado dei sobborghi di Casablanca, il cui tratto realistico viene esaltato dall’impiego di due attori non professionisti nei due ruoli principali.
Proprio nelle facce scavate di Hassan (Abdelatif El Mansouri) e Issam (Ayoub Elaïd), nelle loro espressioni intense e nervose, nei loro silenzi o nelle parole urlate, si cela una disperazione di fondo che assieme alla dimensione grottesca costituisce l’anima del film, sempre più persa nel buio della notte. Quelle stesse facce, coi loro spigoli evidenziati dai primi piani insistiti, esprimono il conflitto insanabile tra padre e figlio, che si manifesta in due visioni opposte della vita e del mondo.
In tal senso, appare divisiva e ingombrante la presenza della religione che risulta sempre in bilico tra spiritualità e superstizione, e in ogni caso deve comunque scontrarsi con la crudezza di una realtà che lascia ben poco spazio alla speranza, in un’atmosfera notturna e angosciante intervallata da pochi e illusori momenti di luce del giorno.
Tra un imprevisto e l’altro, come un incubo a occhi aperti procede questa strana e tortuosa storia di uomini e cani, accomunati — ma non in senso positivo — sin dal titolo originale del film, Les meutes, in francese “i branchi”, riferibile qui indistintamente agli esseri umani e agli animali, e come rivelato anche dall’ultima, beffarda inquadratura.