Ruiz tenta un’operazione di riscrittura filmica di Proust con un’impossibile trasposizione/traduzione in due ore e mezza di immagini, con voce narrante e musiche del compositore di quasi tutte le sue colonne sonore, Jorge Arriagada, di un’opera che attraverso il grafema poetico, irriproducibile con altri segni, trova la sua compiutezza di capolavoro letterario ed il suo significato artistico, non parafrasabile, inadatto a riduzioni bignamesche così come a reinvenzioni autoriali.
Il risultato è un perfetto affresco della Francia degli inizi del novecento, tra la belle epoque e la prima guerra mondiale, che stilisticamente ricorda Il Gattopardo di Visconti.
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Ruiz tenta un’operazione di riscrittura filmica di Proust con un’impossibile trasposizione/traduzione in due ore e mezza di immagini, con voce narrante e musiche del compositore di quasi tutte le sue colonne sonore, Jorge Arriagada, di un’opera che attraverso il grafema poetico, irriproducibile con altri segni, trova la sua compiutezza di capolavoro letterario ed il suo significato artistico, non parafrasabile, inadatto a riduzioni bignamesche così come a reinvenzioni autoriali.
Il risultato è un perfetto affresco della Francia degli inizi del novecento, tra la belle epoque e la prima guerra mondiale, che stilisticamente ricorda Il Gattopardo di Visconti. Un ritratto fedele dell’alta società del tempo, ottenuto grazie alla pedissequa ricostruzione scenografica, cui ha contribuito lo stesso Ruiz, di salotti frequentati da principi e nobildonne, dove un giovane Marcel Proust si muove spaesato, districandosi tra i pettegolezzi e le chiacchiere senza senso di un mondo vuoto e superficiale, stabilimenti elioterapici in cui lo scrittore andava da ragazzo con la madre, ville con carrozze e cavalli, case chiuse in cui si prostituiscono giovani reduci dal fronte per soli uomini, personaggi fittizi e forse alter ego su cui proiettare un’inconfessabile omosessualità, e così via.
Frustrante, per chi non abbia letto Il Tempo ritrovato, la ricerca di senso in un racconto non lineare, in cui si sovrappongono costantemente immagini del passato e del presente, affollato di personaggi variegati, interpretati peraltro da un cast di grandi attori, in cui spicca Malkovich nel ruolo del barone di Charlus, il personaggio meglio riuscito del film.
L’opera rimane impenetrabile, fredda come il marmo di una bella scultura neoclassica, non coinvolge, non commuove, se non nell’ultima sequenza, ma è oramai troppo tardi.
Dove sia finito il Ruiz visionario, poetico, onirico, surreale, di Le tre corone del marinaio non è dato sapere. Forse condizionato dai mezzi messigli generosamente a disposizione dalla produzione, intimidito dai nomi altisonanti del cast, avrà pensato che era meglio non rischiare ed ha sbagliato cadendo in una regia convenzionale ed estetizzante con rari sprazzi di genialità.
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