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Pensavo di aver toccato il fondo col primo premio a Cannes nel 2017, qualche anno fa, con “The Square” di Ruben Östlund, ma mi sbagliavo. Annette del regista Alexandre Oscar Dupont, 1960, “figlio d’arte”, francese, riesce ad essere peggio. Per la prima volta, dopo diversi decenni, devo fare i conti con una nuova sensazione: quella di sentirmi oltraggiato, umiliato, oltremodo affaticato dopo più di 2 ore di proiezione, come pubblico. Perché se è vero che il regista ha il compito di interpretare la realtà e di renderla più accessibile al pubblico, deve tenere conto dei suoi sentimenti, e rispettarlo, se no rischia di scatenare una guerra civile (come quella spagnola). Il fatto che il regista sia francese mi dà una possibile chiave di lettura. Nel film Annette, nello stile di un musical americano, che dopo un’inizio roseo diventa piuttosto cupo e drammatico, forse si può scorgere una critica a tutto campo della società campeggiata dagli Stati Uniti, ma che sta diventando la norma in tutto il mondo occidentale: a parte i pochissimi straricchi, per gli altri il rischio di ingrossare le spesse fila dei perdenti, sviato da qualche dote particolare, spesso effimera, bene orchestrata dai media, e spesso in confine incerto col crimine. Nel film perfino la figlia è un pupazzo dalla nascita, smarrendo dall’inizio quello che è proprio della gioventù: la possibilità di indurre il cambiamento dello status quo. È vero che probabilmente Dupont ha una qualche conoscenza della “ballata del vecchio marinaio” di Coleridge, di “Pinocchio” di Collodi, dei tragici greci, di tematiche inerenti al femminicidio, ma appare invaso da quelle tematiche che si affanna a denunciare.
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recensioni di critica, pubblico e dizionari.
