thomas
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giovedì 8 ottobre 2020
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"non si mente a chi si ama"
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"L'amore è l'unica cosa che riusciamo a percepire che trascende le dimensioni di tempo e spazio", dice Amelia Brand in uno dei più profondi dialoghi sull'amore che il Cinema ci abbia regalato.
E' la profondità, infatti, che dà senso alle cose, ai rapporti, alle parole, li rende capaci di rivelare la loro più intima essenza e, in tal modo, li libera dall'involucro di falsità che riempie viceversa di vuoto il tempo e lo spazio. Undine sa rendere talmente vera tale affermazione da decidere di vivere il suo amore eterno in un luogo in cui il silenzio consente alla verità di rendere assoluto persino il semplice sfiorarsi delle mani.
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"L'amore è l'unica cosa che riusciamo a percepire che trascende le dimensioni di tempo e spazio", dice Amelia Brand in uno dei più profondi dialoghi sull'amore che il Cinema ci abbia regalato.
E' la profondità, infatti, che dà senso alle cose, ai rapporti, alle parole, li rende capaci di rivelare la loro più intima essenza e, in tal modo, li libera dall'involucro di falsità che riempie viceversa di vuoto il tempo e lo spazio. Undine sa rendere talmente vera tale affermazione da decidere di vivere il suo amore eterno in un luogo in cui il silenzio consente alla verità di rendere assoluto persino il semplice sfiorarsi delle mani.
"Undine - Un amore per sempre" è un film forte e profondo, che indaga senza pudore l'intima essenza dell'amore e lo fa con intelligenza, usando anche la metafora della ricostruzione urbanistica delle città: quell'abbattere i vecchi palazzi per sostituirli con i nuovi cos'altro è se non il ri-costruirsi dimenticando i vecchi amori per proiettarsi in avanti con i nuovi? Ma il senso più profondo del ricostruirsi è anche nella capacità di migliorarsi potenziando la propria sensibilità e bellezza interiore, esattamente come l'evoluzione urbanistica si sviluppa positivamente ogniqualvolta la forma di un edificio sa potenziare la funzione che esso deve svolgere. Come ogni film sull'amore vi è molta fisicità, quasi sempre visualizzata in abbracci ad occhi chiusi, sorrisi e ascolto reciproco. La qualità dei dialoghi, inoltre, fa decollare la storia raccontata e in una delle scene più interessanti è proprio il desiderio di ascolto di Christophe a ricordarci che, quanto più si ascolta, tanto più si ama.
Paula Beer interpreta splendidamente Undine e merita il premio di miglior interprete femminile ottenuto alla berlinale soprattutto per l'intensità dei suoi sguardi: in Undine c'è un baluginio di follia che la Beer cristallizza molto efficacemente nella fissità di alcune espressioni, conferendo spessore al personaggio.
Ma nel vero amore c'è anche una componente di folllia: cosa riesce a proiettare due persone nell'eternità, trascendendo le dimensioni di tempo e spazio, se non anche la sana follia di non saper mentire a chi si ama?
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eugenio
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lunedì 11 gennaio 2021
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la forza dell’amore
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Undine si porta dietro il vuoto, il vuoto dell’assenza e del dolore. Laggiù, nelle profondità del suo spirito, c’è un baratro dove le anime prave crollano avvinti a quell’amore primigenio che per converso si eleva dall’abisso della terra. Il dolore del vuoto è il peggiore, è quello del silenzio, dell’impossibilità di fare qualcosa per riparare e rimettere a posto le cose. Di fare qualcosa per cancellarlo, quel finto silenzio che urla e scuote il corpo dall’interno, quel finto nulla pieno di fantasmi che volteggiano eterei e inafferrabili, un eco di antiche risate e di dolci sorrisi che non sarebbero più tornati.
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Undine si porta dietro il vuoto, il vuoto dell’assenza e del dolore. Laggiù, nelle profondità del suo spirito, c’è un baratro dove le anime prave crollano avvinti a quell’amore primigenio che per converso si eleva dall’abisso della terra. Il dolore del vuoto è il peggiore, è quello del silenzio, dell’impossibilità di fare qualcosa per riparare e rimettere a posto le cose. Di fare qualcosa per cancellarlo, quel finto silenzio che urla e scuote il corpo dall’interno, quel finto nulla pieno di fantasmi che volteggiano eterei e inafferrabili, un eco di antiche risate e di dolci sorrisi che non sarebbero più tornati.
Il vuoto, per la sua natura è difficile da combattere. Undine lo sa bene: storica guida del museo di Berlino, abituata a parlare di antichità, a rievocar il passato, a studiare la città sfruttando plastici e ricostruzioni di un’antichità ribelle. Viene lasciata ex-abrupto da Johannes, l’amore eterno che si erano giurati era semplicemente una chimera. Presto, però, Undine, si innamora di nuovo e il vuoto che le spezzava il petto, sembra trovare requie e pace annichilito dalla forza del primo sentimento. Christoph è il nuovo amore e ha il volto di un sommozzatore, la striatura dell’acqua e i bordi della sua vita rinascono dalla forma di un’onda. Undine è contenta, cesella il suo amore come i frammenti di una città divisa in passato dalle mura, eppure il passato torna ancora a battere i suoi colpi. Il passato torna nel volto di Johannes e nella figura infuriata di Cristoph che si sente tradito perché non al corrente del passato amore di Undine. Ma Cristoph presto ha un incidente, proprio in acqua, nel suo territorio ideale. E Undine tornerà nuovamente a passeggiare atona lungo il crinale di quell’abisso, là ferma sull’orlo di un precipizio ad attendere che venga l’ora di riempire di nuovo tutto con cose effimere ma reali. E’ questo il problema del vuoto: che ha sempre qualcosa all’interno. Qualcosa che viene inevitabilmente fuori quando col vuoto ci si confronta e quasi si perdono i sensi come in acqua. In momenti in cui le difese calano e la ragione spesso non è più disposta a lottare, nelle profondità marine, il vuoto si palesa come padrone assoluto. E’ difficile battersi col vuoto e Undine lo sa bene: perché arriva di soppiatto, emergendo dal buio quando oramai si è prossimi alla meta e pone, in quell’abisso oscuro, davanti a te stesso, al carico che ti sei portato dietro durante la faticosa discesa in acqua nel giorno che diventa notte, una finzione leggera. Peccato che leggero il vuoto non è mai ed è pieno di paura.
Undine del tedesco Christian Petzold è un film etereo, simbolico, profondo. Rielabora il leitmotiv dell’Ondine, la figura mitologica germanica ma possiede una leggerezza rara, nel suo cuore vivido di abbracci che interagiscono con un presente fatto di musei, palombari, occhi azzurri e inquieti. Come quelli dell’attrice protagonista bravissima (vincitrice a Berlino) Paula Beer, desiderosa di un amore eterno. Ha il colore del buio Undine, perché porta dentro di sé l’ansia dell’aspettativa e il peso della rassegnazione e non concede tregua perché è il simulacro dell’inferno, è un’eterna caduta in attesa dell’impatto finale ma è anche un inno elegante che si disperde in concatenazioni differenti, che palesa finali, che tocca senza approfondire volutamente il mistero dell’amore.
Come se fosse un grosso, brutto baule mezzo rotto, stipato di schegge e pezzi di ferro arrugginito buttati alla rinfusa, di cui vogliamo sbarazzarci, come se fosse l’ultimo cassetto del mobile di una casa che si sta per abbandonare, colmo di ricordi, progetti, Undine ne fa note di poesia. Come se fosse tristezza, quella che uno poteva aspettarsi da quel vuoto, un paesaggio brullo e sterile o un fallimento esistenziali, Undine rievoca bellezza.
Sembra dirci Petzold, che nell’origine, nell’acqua, nella vita, quel vuoto ha la forza di riscuoterci, di darci la forza, costringendoci ad ammettere che ciò che si ha era altro da ciò che si credeva di avere. E’ l’abisso, la sua spira acquatica ad attirarci, sul quale Cristoph al termine si affaccia, si immerge, avvertendo qualcosa in fondo a quel ventre caldo e sconosciuto che vuole inghiottirlo, che produce il rumore del passato ma che contiene il bene del futuro. Che inghiotte le mani e non avverte di quello che metterà d’improvviso davanti agli occhi sbarrati, preso da quello che è già stato e da quello che mai sarà nel mistero finale, in un ciclo che nega l’idea di fondo del progresso e che dall’eterno, trova in esso il suo senso di esistere.
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gianleo67
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sabato 24 agosto 2024
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una ninfa tra i plastici
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La bella Undine si divide fra il lavoro di conferenziere in un museo di storia urbanistica e la relazione tormentata con l'indeciso Johannes. Quando quest'ultimo decide di lasciarla, la situazione sembra precipitare; finché non entra in scena Christoph… Che il regista tedesco avesse smarrito la via del realismo della scuola di Berlino lo si era già capito con l'evocativo Wolfsburg e forse ancor di più con il fantasmatico Gespenster, ed a parte la parentesi de La scelta di Barbara (più un film intimista di resistenza civile che cupa rievocazione storica), la sua cifra sembra attestarsi nei territori inesplorati della riflessione metafisica sul senso delle relazioni umane, sempre in bilico tra vitalistiche pulsioni amorose ed il cupio dissolvi di una fine inevitabile.
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La bella Undine si divide fra il lavoro di conferenziere in un museo di storia urbanistica e la relazione tormentata con l'indeciso Johannes. Quando quest'ultimo decide di lasciarla, la situazione sembra precipitare; finché non entra in scena Christoph… Che il regista tedesco avesse smarrito la via del realismo della scuola di Berlino lo si era già capito con l'evocativo Wolfsburg e forse ancor di più con il fantasmatico Gespenster, ed a parte la parentesi de La scelta di Barbara (più un film intimista di resistenza civile che cupa rievocazione storica), la sua cifra sembra attestarsi nei territori inesplorati della riflessione metafisica sul senso delle relazioni umane, sempre in bilico tra vitalistiche pulsioni amorose ed il cupio dissolvi di una fine inevitabile. Con questo Undine (nome proprio di ninfa acquatica, ma anche personale della bella protagonista) ci si muove tra le suggestioni equoree già suggerite da Yella, in cui lo spirito elementale di limacciose profondità lacustri sembra incarnarsi in un ideale di donna/mostro condannata a pagare a caro prezzo la sua scelta terrena, tra concessioni senza riserve all'amore per un uomo e lo scotto di una subordinazione di genere da cui non sembra esserci via d'uscita. Nel parallelo che si instaura poi tra vita professionale e vita privata, l'ulteriore suggerimento di una tesi antimodernista, tutta proiettata sulla contaminazione tra allegoria del mito e tangibilità della Storia (nei plastici, nelle planimetrie, nella narrazione dell'evoluzione urbanistica di una città che ha attraversato le tumultuose vicende di alterni potentati), laddove l'eterotopia (cronotopia) di un ex palazzo imperiale riconvertito in un moderno museo del XXI secolo sia il paradosso architettonico di un progresso impossibile, allo stesso modo di come la vicenda di amore-morte della protagonista rinverdisca il rito di un sacrificio d'amore condannato a ripetere ciclicamente il suo inevitabile epilogo. A differenza di Yella, dove pure questa ambiguità del reale attraversato dalle presenze fantasmatiche di una realtà altra (e già compiuta) asseconda una vicenda in cui il sentimento di ineluttabilità scorre carsicamente lungo tutta la narrazione per riemergere alla fine nei poveri corpi stesi in riva al fiume, Petzold sembra concedere qui un afflato di speranza, il ribaltamento di un epilogo già inscritto nel mito che solo un estremo sacrificio d'amore è in grado di donare, ribaltando la messa in scena di una vendetta inevitabile nel coup de theatre, forse appena un po' melodrammatico, di un sentimento immortale che si rinnova e prosegue sotto altre forme. Orso d'argento per la migliore attrice a Paula Beer che trionfa pure agli European Film Awards 2020 e che non fa di certo rimpiangere l'intensa sensualità di una struggente Nina Hoss.
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