Undine si porta dietro il vuoto, il vuoto dell’assenza e del dolore. Laggiù, nelle profondità del suo spirito, c’è un baratro dove le anime prave crollano avvinti a quell’amore primigenio che per converso si eleva dall’abisso della terra. Il dolore del vuoto è il peggiore, è quello del silenzio, dell’impossibilità di fare qualcosa per riparare e rimettere a posto le cose. Di fare qualcosa per cancellarlo, quel finto silenzio che urla e scuote il corpo dall’interno, quel finto nulla pieno di fantasmi che volteggiano eterei e inafferrabili, un eco di antiche risate e di dolci sorrisi che non sarebbero più tornati.
Il vuoto, per la sua natura è difficile da combattere. Undine lo sa bene: storica guida del museo di Berlino, abituata a parlare di antichità, a rievocar il passato, a studiare la città sfruttando plastici e ricostruzioni di un’antichità ribelle. Viene lasciata ex-abrupto da Johannes, l’amore eterno che si erano giurati era semplicemente una chimera. Presto, però, Undine, si innamora di nuovo e il vuoto che le spezzava il petto, sembra trovare requie e pace annichilito dalla forza del primo sentimento. Christoph è il nuovo amore e ha il volto di un sommozzatore, la striatura dell’acqua e i bordi della sua vita rinascono dalla forma di un’onda. Undine è contenta, cesella il suo amore come i frammenti di una città divisa in passato dalle mura, eppure il passato torna ancora a battere i suoi colpi. Il passato torna nel volto di Johannes e nella figura infuriata di Cristoph che si sente tradito perché non al corrente del passato amore di Undine. Ma Cristoph presto ha un incidente, proprio in acqua, nel suo territorio ideale. E Undine tornerà nuovamente a passeggiare atona lungo il crinale di quell’abisso, là ferma sull’orlo di un precipizio ad attendere che venga l’ora di riempire di nuovo tutto con cose effimere ma reali. E’ questo il problema del vuoto: che ha sempre qualcosa all’interno. Qualcosa che viene inevitabilmente fuori quando col vuoto ci si confronta e quasi si perdono i sensi come in acqua. In momenti in cui le difese calano e la ragione spesso non è più disposta a lottare, nelle profondità marine, il vuoto si palesa come padrone assoluto. E’ difficile battersi col vuoto e Undine lo sa bene: perché arriva di soppiatto, emergendo dal buio quando oramai si è prossimi alla meta e pone, in quell’abisso oscuro, davanti a te stesso, al carico che ti sei portato dietro durante la faticosa discesa in acqua nel giorno che diventa notte, una finzione leggera. Peccato che leggero il vuoto non è mai ed è pieno di paura.
Undine del tedesco Christian Petzold è un film etereo, simbolico, profondo. Rielabora il leitmotiv dell’Ondine, la figura mitologica germanica ma possiede una leggerezza rara, nel suo cuore vivido di abbracci che interagiscono con un presente fatto di musei, palombari, occhi azzurri e inquieti. Come quelli dell’attrice protagonista bravissima (vincitrice a Berlino) Paula Beer, desiderosa di un amore eterno. Ha il colore del buio Undine, perché porta dentro di sé l’ansia dell’aspettativa e il peso della rassegnazione e non concede tregua perché è il simulacro dell’inferno, è un’eterna caduta in attesa dell’impatto finale ma è anche un inno elegante che si disperde in concatenazioni differenti, che palesa finali, che tocca senza approfondire volutamente il mistero dell’amore.
Come se fosse un grosso, brutto baule mezzo rotto, stipato di schegge e pezzi di ferro arrugginito buttati alla rinfusa, di cui vogliamo sbarazzarci, come se fosse l’ultimo cassetto del mobile di una casa che si sta per abbandonare, colmo di ricordi, progetti, Undine ne fa note di poesia. Come se fosse tristezza, quella che uno poteva aspettarsi da quel vuoto, un paesaggio brullo e sterile o un fallimento esistenziali, Undine rievoca bellezza.
Sembra dirci Petzold, che nell’origine, nell’acqua, nella vita, quel vuoto ha la forza di riscuoterci, di darci la forza, costringendoci ad ammettere che ciò che si ha era altro da ciò che si credeva di avere. E’ l’abisso, la sua spira acquatica ad attirarci, sul quale Cristoph al termine si affaccia, si immerge, avvertendo qualcosa in fondo a quel ventre caldo e sconosciuto che vuole inghiottirlo, che produce il rumore del passato ma che contiene il bene del futuro. Che inghiotte le mani e non avverte di quello che metterà d’improvviso davanti agli occhi sbarrati, preso da quello che è già stato e da quello che mai sarà nel mistero finale, in un ciclo che nega l’idea di fondo del progresso e che dall’eterno, trova in esso il suo senso di esistere.
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