Vincitore come miglior regista del Cavallo d’Oro di Taiwan e numerosi premi al Asian Film Award, tra i quali costumi e fotografia, Zhang Yimou ritorna sul grande schermo dopo il blockbuster con Matt Demon, The Great Wall, del 2016, fautore di numerosi successi come Ju Dou (1990), La Foresta dei Pugnali Volanti (2004) e la Città Proibita (2007), con un film che omaggia nuovamente il genere wuxia.
Una pellicola di pura regalità estetica racchiusa in una sapiente e scrupolosa palette di sfumature dal bianco al nero, una scelta cromatica duale che rafforza (come già ci aveva abituato in altri lavori) le tappe della trama ed i ruoli ed i sentimenti dei personaggi.
La narrazione lineare procede, soprattutto nella parte introduttiva, in maniera non proprio ritmata, concedendosi il tempo di raffigurare le differenti fisionomie e caratterizzazione dei protagonisti intuendone le varie aspirazioni.
La storia si concentra sul comandante delle forze armate, che, a causa di una rivalsa personale ed egoista, ha deciso di affrontare il comandante dell’esercito nemico occupante una strategica città posseduta, precedentemente, dal regno. La richiesta di un formale duello sbilancia tutti gli equilibri che il Re aveva stipulato nell’accordo di pace – egregiamente mostrato su veli decorativi della sala principale, ricordando Hero (2002), scritti di proprio pugno –, il quale si proverà ad escogitare un piano affinché non scoppi una nuova guerra.
Sottostante questa vicenda si muovono, in diverse direzioni, gli intrighi architettati dal vero comandante in carica, segregato in una stanza del palazzo, rimpiazzato da una controfigura, l’Ombra, con la funzione di protezione e di ubbidiente marionetta.
I conflitti duali che si vengono a creare negli intrecci politici del palazzo si sommano e si articolano in un sistema di intrighi, cospirazioni, mosse d’anticipo e colpi di scena in costante tensione tra l’attuare per dovere e fedeltà «alla corona» ed il perseguimento delle aspirazioni squisitamente personali.
La chiave di lettura è evidente dalla compenetrazione degli avvenimenti che si susseguono in una spirale (il cui centro gravitazionale della menzogna porterà a conseguenze tragiche), evocata dall’arena di addestramento Tai Chi raffigurante l’iconico simbolo dello yin e yang, ripreso più volte nella visione ed elemento base nella formazione del colore della pellicola.
Come in ogni wuxia che si rispetti, acrobatici sono i tipici combattimenti a mezz’aria, non numerosissimi ma in grado di regalare quelle emozioni visive uniche nelle coreografie delle inconsuete armi che si scontrano e si sferzano una contro l’altra, accompagnate dal velo musicale pentatonico dello zither, anch’esso specchio dell’emotività dello strumentista.
La monumentalità epica è visibile nell’ingegno logistico dell’infiltrazione nella città di Jing, annunciato dalla profezia iniziale (non per niente mistica e legata all’elemento proprio dell’arma e della tecnica del comandante), dei sette giorni di pioggia imperante. Il film, pertanto, è oppresso continuamente dall’acqua piovana che raggiunge, metaforicamente, anche il cuore del palazzo, elemento di stabilità e potere, proprio nell’area segreta, luogo di prigionia.
30/03/2019
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