Opera prima di Vanessa Filho che dipinge, metaforicamente e visivamente, la pellicola di vibranti e caldi colori pastello, indulgendo nelle sfumature del rosa, inserendo tanto glitter e trucchi in questa parabola amara. Un contrasto netto con la trama e il soggetto sviluppato che colpisce subito l'occhio e la mente dello spettatore e crea quasi una dimensione parallela, un limbo onirico tra l'innocenza e spensieratezza, le tipiche caratteristiche dell'infanzia di una bambina ma che qui sono assenti, e contrastano con la durezza del contesto e ambiente nel quale la piccola Elli è costretta a crescere e maturare prima del tempo. Questo universo colorato e animato dalle luci al neon racchiude in realtà un aspetto molto duro, ingiusto e difficile da digerire ma assolutamente realistico e verosimile: l'abbandono di minori, i quali si ritrovano a crescere da soli e prendersi cura di se stessi cercando l'aiuto e il sostegno in un adulto lontano dalla famiglia d'origine (elemento che abbiamo ritrovato nel commovente e bellissimo Cafarnao, 2018).
Angel Face esprime e racchiude tutta l'inadeguatezza di una madre, Marlene, interpretata da una sempre formidabile Cottilard, la quale ama sinceramente sua figlia ma è assolutamente incapace di prendersene cura. Le piace truccarla e rivestirla di glitter come fa con se stessa, allungarle le bottiglie di alcolici che non mancano mai da casa e che non si staccano dalla sua mano, ma poi la voglia di vivere in assoluta libertà come una teenager senza vincoli e responsabilità (tra feste, alcol e sesso) la tengono lontana da quello che dovrebbe essere il suo compito primario: proteggere e crescere sua figlia donandole sicurezza e amore. La Cottilard incarna perfettamente tutta l'inadeguatezza, il fallimento, l'irresponsabilità che un genitore e per di più una madre non dovrebbero più mostrare. La sua trascuratezza e infantilità provocano rabbia, la sua superficialità provoca indignazione e irritazione mentre i suoi momenti di dolcezza assoluta con la figlia provocano tenerezza. Ma non è Marlene il centro della narrazione, e nemmeno il suo libertinaggio, bensì la piccola con la faccia d'angelo. La sua espressività, i suoi eloquenti silenzi, il suo malessere nel vivere, crescere, socializzare e giocare da sola, senza un sostengo, senza una guida o peggio dell'affetto. La mancanza della madre, che puntualmente la abbandona quando crede di aver trovato l'uomo giusto, la farà avvicinare al figlio di un vicino di casa; anch'egli in un rapporto problematico con l'anziano padre. L'uomo, umile lavoratore nel luna park locale, si prenderà cura della bambina e la accompagnerà in quel arduo percorso di crescita che ogni bambino dovrebbe affrontare protetto, custodito e amato. Elli instaura un legame molto forte con Julio, anch'egli affetto da un grave problema di salute, e i due riescono a sostenersi e superare le rispettive fragilità riuscendo a trovare un punto di comunicazione comune, un dialogo, un affetto sincero e disinteressato di cui entrambi avevano disperato bisogno.
La Filho riesce così a descrivere con pennellate di rosa e a colpi di rossetto una storia di disagio e degrado sociale e morale. Ma più di tutto racconta una storia di solitudini e ingiustizie nei confronti dei più deboli e fragili, dei bambini che sono sempre i primi a pagarne le conseguenze e a ereditare gli errori dei genitori. Ciò viene esemplificato dalle sequenze in cui vediamo la bambina vestirsi, truccarsi e atteggiarsi come la madre, bere alcolici e intraprendere lo stesso percorso in discesa prima ancora di essere cresciuta. Ed è anche una rappresentazione di immense solitudini, legate ognuna all'altra ma incapaci di risollevarsi. La madre non trova mai il coraggio di cambiare definitivamente la rotta della sua vita, la bambina è costretta a subire il vuoto, l'abbandono, a dover trovare modi per incanalare questa rabbia e dare un senso all'assurdità trovando conforto tra le braccia di Julio ed infine Julio non riesce a trovare un punto di comunicazione con l'anziano padre ed è costretto a vivere da solo, isolato dal mondo. Solitudini che divorano e vengono divorate da una società che non presta le dovute attenzioni e chi ne ha più di bisogno (dove sono, ad esempio, i servizi sociali?).
I risvolti psicologici sono ben delineati, e seppur Angel Face risulta in qualche modo imperfetto e disomogeneo come prodotto, penalizzato sopratutto dalla mancanza di originalità e dalla sovrabbondanza di film che rivisitano la stessa tematica di famiglie disfunzionali e rapporti genitori-figli conflittuali. Esteticamente coraggioso, il film si dipinge di rosa e azzurro (quest'ultima tonalità dettata sopratutto dalla presenza dell'elemento marino) creando un universo multicolore come quello che solitamente piace tanto alle bambine, per creare questo contrasto emotivo, psicologico e narrativo col vissuto della protagonista. Il finale è invece probabilmente l'elemento più debole del film non riuscendo a donare un epilogo definitivo e conclusivo ai suoi protagonisti e al racconto costruito. Che fine farà la piccola Elli? Sua madre sarà finalmente in grado di prendersene cura e mettere la testa a posto o sono entrambe destinate a protrarre due esistenze parallele? Gli interrogativi si susseguono e lo spettatore è invitato a dare le risposte che mancano.
Esordio interessante, privo di eccessivo lirismo, didascalismi o sentimentalismo ma raffigurante una realtà tragica e reale che porta con se una discussione molto seria e precisa riguardo la responsabilità e la crescita dei bambini, il sapergli gettare delle ancore di valori e affetto a cui possano aggrapparsi per diventare adulti responsabili e psicologicamente stabili. Voto: 3/5.
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