Come sempre, Bellocchio non dirige i suoi interpreti: li plasma, li trasfigura. Suo figlio Pier Giorgio è un Federico traboccante di desiderio represso, di furore impotente, di masochismo narcisista. Padre Cacciapuoti, il viscido inquisitore impersonato con subdolo sadismo dall’impeccabile Fausto Russo Alesi, spaccia Federico come il fratello redivivo, sperando di ingannare Benedetta e di indurla così a confessare: ma sarà lei a beffare entrambi, con una falsa confessione che, nel momento in cui viene murata viva, la trasforma in una sortad’Antigone refrattaria all’arroganza del potere, cattolico e oscurantista nel Seicento, laico e reazionario ai giorni nostri. La giovane attrice ucraina Lidiya Liberman, che raccoglie il testimone lasciato dalla francese Beatrice Dalle ne La visione del sabba(anche lei strega ipnotica e seduttrice che attraversa il tempo e lo spazio, eterna e incorruttibile come l’essenza stessa della tentazione), tratteggia una Benedetta sottilmente indecifrabile e perturbante, dal sorriso enigmatico come quello della Gioconda. Incatenata e immersa nell’acqua, oppure circondata da un crocchio di frati salmodianti («Non soffocatela!», esclama in un impeto di gelida collera padre Cacciapuoti), angelo demoniaco o demonio angelico, a seconda dell’angolatura scelta, Benedetta è una Jeanne d’Arc riflessa da uno specchio deformante, una Maddalena impenitente che ribolle d’intrepida femminilità.
Roberto Herlitzka, l’indimenticabile Aldo Moro di Buongiorno notte, ricompare nel ruolo altrettanto simulacrale del conte Basta: nel grottesco colloquio con il proprio dentista (Toni Bertorelli, il forcaiolo conte Bulla de L’ora di religione, ancora più caustico nei panni di un nostalgico dei bei tempi in cui, invece di chiedere la fattura, i contadini pagavano le cure mediche con polli, uova e salami) infarcisce con sofismi filosofici tutto il suo aristocratico disprezzo per il genere umano. Un cinismo squisitamente teatrale, da godere in ogni parola, in ogni sfumatura della mimica facciale, in ogni variazione del tono di voce. Incastonati alla perfezione nella trama anche il fratello maggiore del regista, il poeta Alberto Bellocchio, nei panni ieratici del maturo cardinale Federico, e la figlia Elena, la ragazza solare che finisce per far implodere il presunto vampiro. Infine, le due sorelle invaghite del bel Federico, Alba Rohrwacher e Federica Fracassi, che stemperano nell’ironia il sapore quasi boccaccesco della situazione.
In Sangue del mio sangueMarco Bellocchio chiude il cerchio e ritorna alle origini: «Bobbio è il mondo», afferma sarcastico il conte Basta, e così è per l’autore, dato che il microcosmo letargico del paese finisce per coincidere idealmente con il suo labirintico universo interiore. L’occhio cinematografico, non certo reso opaco, anzi, affinato dall’età non più verde ma vitale come un crepuscolo infuocato, riesce a infondere ad ogni singola inquadratura gli echi abissali di una psiche rivelata e svelata dall’immagine filmica (esemplare in questo senso il montaggio, curato da Francesca Calvelli, compagna del regista). Lo sfondo cromatico su cui agiscono i personaggi è denso di impasti pittorici, grazie alla maestria di Daniele Ciprì che combina chiaroscuri quasi caravaggeschi (l’alcova claustrofobica del conte Basta; l’altare barocco davanti al quale Benedetta affronta l’atroce prova del fuoco) con eruzioni sensuali di colore (il roseto del convento) e con tonalità livide e quasi espressioniste (la nuda cella di Benedetta; le acque torbide in cui sprofonda il prete suicida). Il simbolismo affiora nel tema del doppio: Federico e suo fratello gemello Fabrizio, il coro delle novizie parodiato dal gruppo di ragazzine che intona canzonette al ristorante, le sorelle che ospitano Federico, le due chiavi del portone della clausura in possesso di Benedetta. Da notare anche come alcuni nomi siano volutamente emblematici: Basta, Mai, Quantunque.
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