Funziona la scatola chiusa, eccome. Le mura di un appartamento, il perimetro di un tavolo, sono l’ambientazione ideale per il regista che, come in una camera autoptica, voglia vivisezionare i suoi personaggi ed estrarne gli interni tumori. Film come “Festen”, “Carnage”, “Il nome del figlio”, fino al celebratissimo “Perfetti sconosciuti” hanno dimostrato l’efficacia di questo schema narrativo.
Ma in “Il ministro”, Giorgio Amato, che lo ha scritto e diretto, va oltre la commedia di Genovese. Sfronda la battuta goliardica, affida la risata (a denti strettissimi) all’intreccio delle situazioni e affonda il suo bisturi in una piaga purulenta, lasciando uscire a fiotti il marcio. Diversa l’architettura: se al centro della tavola di Genovese c’erano le verità nascoste, chiuse nella scatola nera dei telefoni cellulari, Amato dà un volto e una caratterizzazione, quella del Ministro appunto, al centro della galassia attorno a cui tutti i personaggi ruotano eliocentricamente: il Potere. Diverso infine il tema portante: “Il ministro” non è, nelle intenzioni del regista, un film sulla corruzione (anche se finisce inevitabilmente per esserlo), ma sulla corruttibilità: a quali compromessi si è disposti a scendere per inseguire i propri fini?
Un pugno di personaggi ributtanti, che raffigurano i più squallidi stereotipi della classe dominante: Franco (Gian Marco Tognazzi) è un imprenditore sull’orlo della bancarotta. Perennemente nervoso, parossisticamente cinico, non si cura di null’altro che dei suoi affari. La moglie trascurata (Alessia Barela) si sfoga dalle sue frustrazioni nella galleria d’arte che gestisce con dubbia competenza e vessando la domestica venezuelana (Ira Frontén), di cui è gelosa. A completare il quadro Michele (Edoardo Pesce), fratello di Rita e socio di Franco, ignorante, razzista e truffaldino.
Per cercare di ottenere un succulento appalto pubblico hanno invitato a cena un potente Ministro. Franco prepara tutto ciò che il suo ospite può gradire e che la cultura attuale suggerisce: i suoi piatti preferiti, un vino che non importa quale che sia e come si abbini alle pietanze, purché sia il più costoso; e poi cocaina e, manco a dirlo, una escort. Ma ecco l’imprevisto: la ragazza assoldata all’ultimo minuto da Michele li sorprende: è cinese, parla otto lingue, studia teologia ermeneutica. E quando l’ospite arriva mostra una sfrontata sicurezza di sé: durante la conversazione ribatte al potente interlocutore senza l’attesa deferenza e al contempo lancia a 360 gradi gli strali di un richiamo erotico irresistibile. Il Ministro gradisce, ma, a sorpresa, anche la moglie di Franco viene colpita. Le situazioni si aggrovigliano ulteriormente: la presunta squillo si rivela in realtà una ballerina di burlesque e tira sul prezzo per concedersi; la cameriera, minacciata di licenziamento dalla moglie e disperata per il suo futuro, viene adescata dal cinico Franco, perché sia lei a soddisfare l’illustre ospite. Il finale, grottesco e boccaccesco, è l’apoteosi dello squallore che pervade tutta la storia.
No, non c’è il buonismo di Genovese, che salva i suoi squallidi personaggi mettendoli al riparo dietro il paravento dell’ipocrisia delle relazioni. I protagonisti di Amato sono tutti, irrimediabilmente marci e colpevoli e per loro non ci sarà salvezza. È una commedia, “Il ministro”, ma è nera, nerissima.
Quando la macchina da presa ha spazi angusti per muoversi e può puntare l’obiettivo esclusivamente solo sugli attori, a questi viene affidato in esclusiva la potenza del messaggio. Amato non ha a disposizione il cast all-stars di Genovese, ma i suoi interpreti rispondono egregiamente. Bravissimo in particolare Fortunato Cerlino, che, indossato un perenne sorriso irridente (c’è qualche richiamo al Divo di Servillo), dipinge efficacemente l’impudente arroganza del Potere; Alessia Barela sa ben mutare lo sguardo intenso dal freddo disprezzo alla ardente voluttà; la giovane attrice italo-giapponese Jun Ichikawa si cala a fondo nel ruolo e trabocca di magnetica sensualità.
Oltre che nelle interpretazioni, “Il ministro” ha i suoi pregi maggiori nella scrittura: i suoi ingranaggi ben oliati funzionano precisamente e conducono la storia con un crescendo inesorabile al drammatico epilogo. Il riferimento immediato è alle dissacranti commedie degli anni ‘60 e ’70, di cui il padre del protagonista, Ugo Tognazzi, fu magistrale interprete. Nuovissimi mostri, ma più volgari dei loro predecessori, privi dei limiti del pudore o quanto meno della decenza.
Giorgio Amatolascia intendere di avere ancora molto da raccontare; se in futuro avrà mezzi maggiori, la sua penna e il suo obiettivo, sapranno ancora destabilizzarci. La società attuale glielo consentirà.
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