gianni lucini
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mercoledì 12 ottobre 2011
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le aspettative degli altri condizonano la vita
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È giusto sacrificare la propria vita per non deludere le aspettative di qualcuno? È questo l’interrogativo centrale del film di Brad Silberling. Tutti i protagonisti non vivono nel modo in cui vorrebbero ma cercano di assomigliare il più possibile a quello che altri si aspettano da loro. I coniugi Floss tentano di elaborare il lutto per la morte di Diane facendo entrare nella loro vita Joe, cioè il ragazzo che ha l’aureola di “promesso sposo della figlia scomparsa”. Da parte sua il giovane non ha il coraggio di rivelare che in realtà lui e Diane si erano lasciati e si adatta al ruolo di “vedovo bianco” per non deludere e addolorare Ben e Jojo.
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È giusto sacrificare la propria vita per non deludere le aspettative di qualcuno? È questo l’interrogativo centrale del film di Brad Silberling. Tutti i protagonisti non vivono nel modo in cui vorrebbero ma cercano di assomigliare il più possibile a quello che altri si aspettano da loro. I coniugi Floss tentano di elaborare il lutto per la morte di Diane facendo entrare nella loro vita Joe, cioè il ragazzo che ha l’aureola di “promesso sposo della figlia scomparsa”. Da parte sua il giovane non ha il coraggio di rivelare che in realtà lui e Diane si erano lasciati e si adatta al ruolo di “vedovo bianco” per non deludere e addolorare Ben e Jojo. Nessuno dei protagonisti sfugge a questo “sfasamento” tra condizione desiderata e accettazione di un ruolo per non deludere le aspettative di altri, neppure Bertie, la ragazza che lavora all’ufficio postale e che fa innamorare Joe costringendolo a fare i conti con se stesso. Anche lei, infatti, vive cercando di adeguarsi a quelle che crede siano le aspettative del suo uomo, sparito da tre anni e dato ufficialmente per disperso in Vietnam. Per raccontare una storia emotivamente così complessa e dolorosa il regista sceglie i toni della commedia. Si comincia con un funerale e per catapultare immediatamente lo spettatore all’epoca in cui si svolge la storia, cioè l’inizio degli anni Settanta, non servono tanto gli abiti della festa, l’arredamento della casa o i modelli delle limousine, quanto una tiratissima versione di I want to take you higher di Sly & The Family Stone che accompagna il corteo delle auto che seguono il feretro della giovane Diane. La musica ha un ruolo prepotente nel film a partire dal titolo, “rubato” alla canzone con cui si chiude l’album “Sticky fingers” dei Rolling Stones. Le canzoni d’epoca segnano, accompagnano e, in qualche caso, precedono ogni svolta, più o meno significativa, della narrazione quasi fossero personaggi aggiunti. L’idea di dare un ruolo quasi “narrativo” alla musica non è una novità in assoluto e soprattutto non è una novità per il regista Ben Silberling che quattro anni prima di Moonlight mile – Voglia di ricominciare aveva arricchito di brani “prestati” la colonna sonora del suo film La città degli angeli. Questa volta però gran parte delle canzoni ha anche una sua collocazione fisica, non arriva sulla scena in modo impersonale come un colore, un dettaglio o una sfumatura, ma esce da un oggetto ben definito: una radio, un’autoradio e soprattutto da un juke box. Proprio il juke box, l’unico di quello che sembra anche l’unico bar della cittadina dove si svolge il film, assume un ruolo fondamentale nel festival dei sentimenti della narrazione filmica.
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gianni lucini
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mercoledì 12 ottobre 2011
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la negazione che salva la vita
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Fin dalle sequenze iniziali di Moonlight mile – Voglia di ricominciare si capisce che Dustin Hoffman non “interpreta” il personaggio di Ben, ma lo lascia vivere o, meglio, lo fa vivere lasciandosi guidare dall’istinto più che dalla tecnica. Il perbenismo di facciata e l’apparente quanto goffo controllo della situazione con cui vive la cerimonia funebre sono un segno di fragilità che, più e meglio della miglior drammatizzazione in linea con i canoni classici, evidenzia la disperazione interiore di un padre che sta seppellendo la figlia. La sua scelta interpretativa poi si amalgama perfettamente con quella di Susan Sarandon, il cui personaggio vive le sue emozioni apertamente e con una rabbia disperata.
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Fin dalle sequenze iniziali di Moonlight mile – Voglia di ricominciare si capisce che Dustin Hoffman non “interpreta” il personaggio di Ben, ma lo lascia vivere o, meglio, lo fa vivere lasciandosi guidare dall’istinto più che dalla tecnica. Il perbenismo di facciata e l’apparente quanto goffo controllo della situazione con cui vive la cerimonia funebre sono un segno di fragilità che, più e meglio della miglior drammatizzazione in linea con i canoni classici, evidenzia la disperazione interiore di un padre che sta seppellendo la figlia. La sua scelta interpretativa poi si amalgama perfettamente con quella di Susan Sarandon, il cui personaggio vive le sue emozioni apertamente e con una rabbia disperata. Ben è bloccato dal dolore e, se dipendesse da lui, fermerebbe il tempo. Hoffman sceglie di rappresentare questo stato d’animo con una impressionante staticità emotiva. Lo stesso attore così ne descrive le caratteristiche: «Ben si rifugia nella negazione. Il suo modo di affrontare la perdita e il lutto è di negarne l’esistenza. Ferma il tempo e si limita a sostituire la figlia con il fidanzato». Il registro della sua recitazione cambia quando Joe si innamora di Bertie e gli frantuma il sogno di fermare il tempo. La metamorfosi è preceduta da un’inquadratura, una sola, nella quale l’attore con lo sguardo da un lato mostra la rabbia per quello che appare come il tradimento del ragazzo e dall’altro la consapevolezza di dover finalmente elaborare il lutto. Da quel momento Hoffman aggiunge caratteri alla sua recitazione, la arricchisce di gestualità mentre anche il corpo appare meno bloccato, più sciolto, più dinamico nel movimento, sottolineando così il progressivo riemergere di Ben dal tunnel dell’immobilità emotiva.
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